In Italia, le lotte sociali sono ridotte sempre più a un mero problema di ordine pubblico, additate come fatto delinquenziale.
Dalle giornate di contestazione al vertice del G8 a Genova nel luglio 2001 numerosi sono stati i casi in cui la magistratura ha cercato di trasformare le lotte sociali in azioni puramente delinquenziali. Ad oggi sono più di 12 mila i processi in atto sulla base di 18 mila capi di imputazione contro 25 mila attivisti che rischiano di essere condannati e di finire in galera
Un ampio processo di criminalizzazione e di controllo sociale preventivo che colpisce chiunque non si piega alle leggi del mercato, marcando in forme diverse la propria alterità e/o incompatibilità. Pensiamo, ad esempio, a quei particolari laboratori della repressione che si sperimentano in Val Susa contro il movimento che si oppone al Tav, oppure a quello che accade ai migranti o a chi rivendica il diritto all’abitare.
Questi provvedimenti rispondono alla stessa logica: limitare e disciplinare la libertà di manifestare, restringere gli spazi di dissenso e di conflitto.
Si pensi solamente, per citare i più eclatanti, all’abuso che è stato fatto negli ultimi anni di normative come il divieto di dimora o il foglio di via, all’accusa di terrorismo per le azioni di sabotaggio dell’Alta velocità in Val di Susa, all’aberrazione giuridica del reato di devastazione e saccheggio, residuo del codice Rocco di epoca fascista, sistematicamente adoperato da Genova in poi per colpire con delle pene pesantissime (fino a 15 anni di carcere) i partecipanti a manifestazioni in cui si danno episodi di conflittualità contro le forze dell’ordine.
A fronte di tutto, pensiamo che sia necessario porre la giusta attenzione al tentativo di interdizione delle lotte sociali attraverso l’uso di dispositivi di controllo e repressione, al bavaglio mediatico imposto alle opposizioni, al controllo poliziesco sugli attivisti, all’uso della legislazione speciale antiterrorismo. Tasselli che, se considerati nel contesto politico e sociale nel quale si iscrivono, contribuiscono a delineare uno scenario a dir poco preoccupante ed allarmante, una vera e propria svolta autoritaria e liberticida degli apparati dello stato.
Oggi questo paese vive una chiusura degli spazi di agibilità democratica senza precedenti e a tutto tondo, fortemente collegata all’acuirsi della crisi e del carico delle misure d’austerity su tutti.
Quello che sta accadendo insegna come la sfera del giuridico non esprime solo tecnica ma anche aspetti profondamente politici: la continua ridifinizione dei confini del lecito e dell’illecito, della legittimità e dell’illegittimità, quella sorta di pendolo che è la legalità. La sfera del giuridico è un terreno di conflitto dove però oggi ad essere attrezzata è solo una delle parti.
Non ci si può più esimere dal costruire un intervento politico sulla giuridicità. Se si vuole tornare a far respirare la società bisogna allargare il più possibile le maglie che la contengono. Non c’è critica dell’attuale società liberista che possa aver successo senza una contemporanea rimessa in discussione dell’apparato penale che la sostiene. Per farlo bisogna scardinare l’impalcatura giustizialista costruita negli ultimi decenni.
In autunno saremo chiamati a votare per il referendum sull’ultima riforma costituzionale promossa dal governo Renzi. Pensiamo che disinteressarsi dei mutamenti della struttura dello Stato, laddove questi non sono semplici aggiustamenti tecnici, bensì politici, e rafforzano in senso verticistico e autoritario i poteri del governo, sia un errore da non commettere.
Il decisionismo autoritario, il rafforzamento dei poteri dei governi a scapito di altri contrappesi istituzionali, non sono una pura operazione di architettura istituzionale fine a se stessa
Se le cose stanno così, dobbiamo avere il coraggio di esprimere delle posizioni chiare, apertamente controcorrente. Si dovrebbe, cioè, dire che in questa fase più governabilità significa meno democrazia, che tutto ciò che l’establishment considera un impedimento e un ostacolo per “fare le cose e per farle in fretta” (tra cui, per l’appunto, la necessità del doppio passaggio parlamentare, oppure la difficoltà di governare con un parlamento in cui il partito di maggioranza è “costretto” a mediare con altre forze politiche), è una risorsa per noi, da utilizzare per rallentare e magari provare a fermare la distruzione dei diritti sociali che le politiche neoliberiste e di austerità dell’UE hanno imposto e continueranno a imporre.
Il nostro No alla riforma Costituzionale non vuole assolutamente fare della carta vigente un feticcio, anzi sappiamo benissimo che provvedimenti come il Jobs Act, la Buona Scuola o lo Sblocca Italia, i tagli alla sanità, le missioni di guerra spacciate per missioni di pace, i pacchetti sicurezza e le legislazioni speciali, così come la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio e del fiscal compact decisi in ossequio ai diktat dell’UE sono parti fondanti di quella costituzione “materiale” che da tempo ha scalzato la costituzione “formale”.
Il nostro No alla riforma Costituzionale vuole essere prima tappa di una riforma costituente che vada in senso opposto, verso l’incorporazione della legittimità delle lotte sociali, del diritto di resistenza. nell’incorporazione costituita dei beni comuni.
Una campagna referendaria che sia un’occasione per fare il punto sullo stato della democrazia e dello stato di diritto del nostro paese, sugli scenari di repressione che già ci sono e su quelli che già si preparano per far fronte all’ “emergenza terrorismo”.
Di questo vorremmo che si parlasse nella campagna referendaria, della democrazia e della Costituzione che già non ci sono. A partire da questi punti possiamo fare la nostra parte e spingere per il No, consci però che non possiamo affidare al voto quello che solo la mobilitazione e la lotta può strappare e ottenere.
Usiamo questa occasione per costruire un fronte di resistenza capace di passare all’attacco e di innescare nuovi processi politici di partecipazione e di conflitto.
ITALO DI SABATO
HAIDI GIULIANI
GIOVANNI RUSSO SPENA
GIANFRANCO BRACALONI
da Osservatorio sulla repressione
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