In giorni oscuri torniamo a interrogarci sulla negazione. L’avevamo rimossa, avevano detto che la storia era finita e avremmo vissuto in un eterno presente pacificato. Ci siamo risvegliati in una specie di guerra civile mondiale dove la negazione è intesa come distruzione della vita: il terrorismo jihadista che rivendica il potere di dare la morte in maniera indiscriminata. Oppure lo stragismo fascista e razzista contro gli immigrati, rovescio diabolico di una risposta uguale e terribile.
Abbiamo perso il contatto con l’idea per cui il negativo sia l’anima del reale, ciò che lo spinge a rovesciare la contraddizione e affermare la vita. Il negativo è invece inteso come una negazione senza rimedio. Oltre il suo «non» c’è il niente. Il «negare» ritrova la sua lontana origine latina: «necare», uccidere. Tutto sembra essere stato assorbito da un dominio di un potere assoluto che non salva, ma uccide anch’esso. Sfumano così le distinzioni che hanno costruito la politica moderna: quella tra guerra e pace, tra il militare e il civile, tra il criminale e il nemico. Anche davanti a fenomeni meno estremi – il lutto, l’afasia, il dolore, la precarietà, la contraddizione più acuta – sembriamo incapaci di afferrare il negativo con categorie diverse dalla distruzione della differenza che abita l’essere.
Siamo un’«inarrestabile deriva nichilista di una negazione sfuggita di mano a chi l’ha teorizzata – scrive Roberto Esposito nel suo ultimo libro Politica e negazione. Per una filosofia affermativa (Einaudi, pp. 207, euro 22) – La logica del nichilismo si traduce in un’ontologia dell’inimicizia». E «l’annientamento diventa auto-annientamento». L’altro va distrutto per affermare un’identità tanto autentica, quanto fittizia e mortifera: l’identità nazionale e «sovrana», oppure la proprietà e la concorrenza tra individui atomici e disperati.
C’è stato un tempo in cui si è ritenuto che il nemico fosse chiaro, almeno dal punto di vista della razionalità politica. Questa logica, in realtà, non era così ferrea, tanto è vero che lo stesso Carl Schmitt in Teoria del partigiano ne ha indicato i limiti. Se a Lenin è stata riconosciuta una superiorità politica per avere trasformato il Capitale da «vero nemico» in «nemico assoluto» (ricambiato dall’altra parte), la deriva nichilistica dell’annientamento non è stata fermata. Anzi, si è intensificata.
Politica e negazione è alla ricerca di un’alternativa. Esposito riparte dal significato di «negazione» e conduce un corpo a corpo con Hegel, il grande pensatore di questa categoria. Non c’è dubbio che il negativo sia l’essere altro da sé, il superamento verso qualcosa che non ritorna all’identico. Il punto è che non è l’espressione di una negatività di fondo dell’essere, un divenire privo di determinazioni che non siano quelle rispetto a se stesso. Il negativo fa parte della vita: è la sua necessità. Per questo va contestualizzato, non generalizzato. È una forma dell’affermazione, non l’elemento originario che annulla l’essere.
Il negativo riguarda anche l’azione, il modo in cui concepiamo le relazioni e la politica. Non è un ostacolo o una forza contraria che si oppone alla libera volontà di chi vuole affermare qualcosa. Il «non» – ovvero il conflitto, la contraddizione – non è esterno al soggetto, ma è interno ad esso. Il negativo è il limite che attraversa la vita costretta tra necessità e finitezza. E tuttavia non è la fine di qualcosa, ma l’indice di ciò che potrebbe essere. Non è l’annichilimento della vita, ma «il punto vuoto che spinge il presente oltre se stesso», scrive Esposito. Lo scopo di questo approfondimento vertiginoso è modificare la nostra disposizione verso la vita. Se la vita è imprigionata nel negativo, allora è immobile povera e paranoica. Se invece è un momento determinato di un divenire storico che si sporge oltre se stesso, allora diventa una pratica.
Per affrontare questa impresa Esposito si è rivolto a Spinoza, l’unico filosofo che ha dato una definizione affermativa della negazione. Spinoza, il grande eretico aggredito da Hegel e sistematicamente travisato dai suoi posteri. Per lui la sapienza è una meditazione sulla vita, non un pensiero sulla morte. È una meditazione su ciò che può fare una vita, non su ciò a cui deve rinunciare per sopravvivere. Questa è ancora oggi la sua gloria: avere una grande fiducia nella vita e denunciare tutti i fantasmi del negativo.
Oggi possiamo intuire quanto contro-corrente possa essere un simile atteggiamento. Ma questa è la vocazione «inattuale» del filosofo. Il suo non è incauto ottimismo, né cieco volontarismo. Conosce la potenza che ci abita, a dispetto del negativo che ci circonda. Ha fiducia nelle potenzialità della vita, come nell’amore per il mondo e per chi lo vive.
L’approdo allo spinozismo di un filosofo importante come Esposito non è improvvisato. Già in passato aveva parlato di «biopolitica affermativa». Oggi parla di «filosofia dell’affermazione». Una definizione rilevante in un panorama culturale come quello italiano dove prevale un «pensiero del negativo» che porta ad esiti impolitici, elitari o addirittura teologici. Il pensiero affermativo non è un positivismo del fatto compiuto, né una stanca decostruzione. Indica la strada per una nuova forma di materialismo, istanza che sembrava remota, o riservata a poco, fino a poco tempo fa.
Sul piano politico questa filosofia mette in discussione la «sovranità», il fantasma di tutti i dibattiti politici o economici. Con «sovranità» si allude a uno Stato che nega l’inimicizia degli uomini e impone il monopolio della violenza. Esiste, invece, un’altra concezione dello «Stato» che incanala la potenza istituzioni capaci di salvaguardarne l’esistenza. In questo modo «il governo degli uomini non passa per una denaturazione della vita», ma da una forma immanente di auto-governo che mira al raggiungimento del «punto massimo della propria espansione». È la differenza che passa tra una politica sulla vita e una politica della vita, per usare le categorie di Esposito.
Una «Filosofia dell’affermazione» non nega l’esistenza del conflitto – il negativo – né allude a una pacificazione come fa la retromania che devasta il dibattito pubblico attuale. Il conflitto è un elemento della relazione, oltre che della creazione di nuove istituzioni. Per renderla concreta è necessaria una politica dell’amicizia.
Nella politica novecentesca l’amicizia è stata considerata una categoria parassitaria dell’inimicizia. O amici, non ci sono amici in questo mondo. E così il mondo si scopre popolato solo da nemici. Davanti a questo paradosso va sperimentata una prassi politica che metta insieme corpo e intelletto, materia e spirito, vita e forma, e non rifugga ma abbracci il conflitto. Una politica dell’amicizia consiste nel costruire opere comuni, nel saperle difendere e nell’affermarle.
La solidarietà e la fratellanza vanno riscoperti come strumenti affermativi, non come mezzi per attaccare il diverso. Creano legami, non impongono vincoli. Se intesi come strumenti del conflitto servono a liberarsi da ciò che impedisce di godere insieme di quello che abbiamo: la carne, la nascita, il corpo, la differenza e, più in generale, l’idea che la norma (giuridica, politica, sociale) nasca dalla vita in comune. L’amicizia è capace di affermare qualcosa che è in potenza e a disposizione di tutti. È tempo di imparare a coglierne i frutti.
ROBERTO CICCARELLI
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