Abbiamo sbagliato fino ad ora nel pensare la ricostruzione delle alleanze, nel corso di questi anni, come un fatto meramente legato ad una ricomposizione di campi geopolitici già sperimentati. Sono state tentate coalizioni “fotocopia” delle precedenti e tutte, ma proprio tutte, hanno dimostrato la loro inadeguatezza non solo nell’essere una proposta di rinnovamento della sinistra anticapitalista e antiliberista in Italia, ma anche nel sembrarlo.
Purtroppo l’apparenza è diventata la cifra primaria di una percezione sociale della politica che ha surclassato l’essenza e, quindi, la vittoria delle destre ha avuto gioco facile nell’alimentare speranze di riassetto sociale fondate sul primato della nascita in territorio italiano, sull’essere quindi autoctoni, su un elemento pertanto etnico a tutto scapito della comune appartenenza di classe.
Il rinnovamento della sinistra in Italia non può avvenire attraverso la scomposizione di nomi, di simboli e la ricomposizione dei medesimi elementi politici sotto altre diciture e sotto altri contrassegni.
Se questo significa che abbiamo un problema di classe dirigente, di apparato – guida tanto dei singoli partiti quanto di ipotetiche future alleanze anche elettorali, ebbene è sacrosantamente vero.
L’aspetto leaderistico non dovrebbe essere fondamentale se si hanno ottime ragioni per convincere gli sfruttati, i proletari della modernità capitalistica a seguire chi gli propone di liberarsi delle catene che li avvolgono.
Ma sono proprio le catene a non essere vissute come dovrebbero: sono legacci ancora così poco pesanti da figurare quasi una sorta di “sindrome di Stoccolma” dei lavoratori e dei precari, dei disoccupati e degli inoccupati di lungo corso; la pesantezza antisociale risulta manifesta in forme fobiche, in nevrosi politiche gestite ad arte da un governo che punta sulla paura per generare una impossibile sicurezza in diversi campi della vita quotidiana.
La costruzione delle nuove alleanze a sinistra, dunque, deve trovare in noi una disposizione differente rispetto anche al recente passato e figurarsi come esigenza non solo politica ma soprattutto sociale. Ciò non può avvenire affermando che il mutualismo è la radice di sviluppo del nuovo socialismo, dell’anticapitalismo di nuovo modello: il sostegno politico al sociale passa anche attraverso il “mutuo soccorso”, ma quelle che un tempo erano le Società e le Case del Popolo avevano precise caratteristiche politiche di inclusione di ogni elemento di traino sociale.
Spesso diventavano l’alternativa concreta ad un modo di fare politica tanto nel proprio comune quanto nell’intero Paese. Si creava una comunità anche diversificata, capace di vivere le contraddizioni della dialettica e le differenti visioni di intervento politico nel sociale.
Il PCI le faceva nascere, il sindacato e i circoli culturali le facevano vivere sul solco dell’alternativa che era la pietra angolare di ogni comunità.
L’inclusione era la principale fonte sociale di ispirazione del mutuo soccorso: darsi una mano reciprocamente. Stabilire, dunque, alleanze per il bene comune e non creare un rapporto unidirezionale per alleviare le sofferenze sociali senza creare una coscienza di uguale misura.
Le case del popolo di oggi, quelle che generosamente vengono aperte da chi si impegna per la ricostruzione di un tessuto sociale che guardi all’alternativa di sinistra e a sinistra, rischiano di essere vissute come emanazione di un soggetto politico che non vuole essere dialogante con il resto della residuale sinistra di questo Paese.
Sono progetti nobili che si scontrano con un settarismo privo di logica, come del resto ogni settarismo è.
Occorre abbandonare immediatamente questa supponenza purista che è sempre pronta a puntare il dito contro tutti coloro che non la pensano come noi o che in passato hanno avuto ampie e incolmabili distanze con quella voglia di alternativa comunista che abbiamo cercato di rappresentare sempre.
Occorre fare in modo che le nuove alleanze siano l’espressione politica di una riproposizione del vecchio binomio “autonomia e unità”. Pensarsi come unitari da soli, come attrattivi se e solo se altri si “sciolgono” e confluiscono dentro un progetto magari anche nuovo ma senza una cultura politica che unisca sociale ed istituzionale, è qualcosa che va oltre la supponenza.
Non abbiamo bisogno di termometri che valutino chi ha sbagliato di più o di meno in passato. Dobbiamo mantenere la nostra autonomia comunista e, con questa, dialogare con chi comunista non è per creare un angolo di speranza per tutti coloro che non si rassegnano all’ondata di destra che invade il Paese e che non può essere fermata facendo appello al “mutualismo”.
Le società di mutuo soccorso vennero bruciate dai fascisti nei primi anni ’20 del “secolo breve”. Il sostegno popolare di allora al fascismo era inferiore al consenso che oggi ha questo governo che ogni giorno alza il tiro e consente l’utilizzo di termini, concetti ed espressioni che superano la democrazia repubblicana e vanno verso una democrazia autoritaria, fatta di repressione, di distinguo in nome della “razza”, di respingimenti, di crudeltà tintinnanti di manette per migranti che vengono fatti scendere dalle navi solo dopo l’intervento del Capo dello Stato, di richieste di riforma della giustizia che ci riportano indietro di almeno settant’anni quando si ipotizza l’abolizione del reato di tortura per consentire alle forze dell’ordine di svolgere il loro lavoro.
Ma nel Paese non sale l’indignazione. Cresce l’approvazione, crescono gli applausi anche da parte di chi ancora solo pochi mesi fa, dalle colonne di importanti quotidiani nazionali, era critico verso l’asse Lega – Cinquestelle.
Adesso i toni si affievoliscono e si dice in televisione: “Tutto sommato la Spagna è stata costretta a far sbarcare i migranti perché l’Italia ha fatto la voce grossa. Vuol dire che qualcosa sta cambiando.”.
L’accettazione dell’inaccettabile è la vera vittoria di questa maggioranza di governo e della cultura politica che la ispira.
Il solo freno a queste “bazzecole” istituzionali è rappresentato dal Presidente della Repubblica, l’ultima espressione di garanzia che ancora non si osa affrontare di petto, come invece accade per quei magistrati che fanno il loro dovere e che vengono tacciati di essere politicizzati solo perché le risposte che danno secondo la legge non aderiscono al programma di governo.
Ennesimamente, dunque, l’allarme per chi ha a cuore la democrazia (borghese) rappresentativa per poter continuare a battersi per una democrazia (socialista) partecipata è suonato e non può scampanellare ancora per molto.
O ci si accorge dei pericoli che stiamo vivendo sul piano della tenuta costituzionale dell’Italia, oppure si confida che dall’alto dell’1% raccolto alle elezioni si possa creare, magari nel giro di due o tre generazioni, una forza capace di sollevare le masse e capovolgere una regressione sociale, istituzionale, morale e civile che ci avrà portato a vivere in un Paese fatto di ristrettezze non solo economiche.
Avere in mente una sinistra ampia, plurale e non settaria è un antidoto possibile tanto ad una riedizione bislacca e farlocca di un centrosinistra che finirebbe con l’essere la solita destra economica di questi ultimi anni, quanto alle vere e proprie destre “complete” di tutto un armamentario ideologico mostrato come grande bagaglio riformatore sociale del futuro quando invece si tratta di una riedizione dell’utilizzo della democrazia come strumento di allevamento di una nuova avventura autoritaria. Il rischio esiste. Sempre. La sinistra dovrebbe esistere. Sempre.
MARCO SFERINI
13 luglio 2018
foto tratta da Pixabay