C’era una volta l’arte politica del trasformismo e, che la si giudichi nel bene o nel male, aveva una sua collocazione dell’Italiaetta appena riunita in regno da qualche lustro. Si era fatta avanti nelle parole di Agostino Depretis, in quel famoso (o almeno reputantesi tale) discorso che tenne a Stradella nell’ottobre del 1882: allargava le braccia con le sue parole quel Presidente del Consiglio che era alla sua ottava presidenza, che era stato molte volte ministro e che ora inaugurava la stagione del “trasformismo”.
Del resto, allargando le braccia, Depretis confessava apertamente che lui nulla poteva fare se qualche deputato o senatore del Regno aveva deciso di darsi al progressismo e di “cambiar casacca”, come si direbbe oggi.
Col tempo la pratica si è consolidata, è diventata endemicamente presente nelle viscere del costituzionalismo non scritto italiano, tanto prima nell’epoca dello Statuto quanto dopo in quello della Costituzione repubblicana.
Tanto più che, pratica altamente democratica, come tutte quelle puntualmente disattese dalla maggioranza dei rappresentanti della Nazione, anche quella della non opportunità di inserire il “vincolo di mandato” nella Carta del 1948 è diventata l’alibi preferito di chi sostiene un assolutismo sovranista del deputato o del senatore in quanto ad appartenenza politica fondata – per carità! lo si sappia! – su quell’alto altare di ciascuno che è la coscienza su cui si fonda la morale.
Dunque, in questi ormai trascorsi cinquanta giorni di dialogo tra le forze politiche, di consultazioni per la formazione del nuovo esecutivo, più che di arte del trasformismo del singolo parlamentare, abbiamo assistito ad una nuova forma espressiva di tutto ciò che meriterebbe un nuovo appellativo. Potremmo chiamare i tira e molla tra Salvini e Di Maio, il cambiamento dei programmi del Movimento 5 Stelle, gli approcci e le distanze rimarcate “mutaformismo” che fa venire in mente, per chi è appassionato del genere, a quei personaggi della saga galattica di “Star Wars” che sono per l’appunto detti “mutaforme” e che cambiano sembianze in men che non si dica.
Max Bunker ne aveva creato uno nei celebri fumetti del “Gruppo TNT”: era Gommaflex. Tirava i lineamenti della sua faccia in tutti i modi e diventava d’aspetto ciò che voleva diventare, quello che gli serviva essere “alla bisogna”, si leggeva allora nel forbito linguaggio cartaceo dei libriccini in bianco e nero.
Il mutaformismo di queste settimane ha provato a far sposare, nel pieno rispetto della dialettica democratica, Lega e Cinquestelle provando a separare la prima dal contesto del centrodestra di vecchio modello. Tentativo fallito a quanto pare. Chi manda Tizio a pulire i cessi, chi chiede più rispetto per poter continuare il dialogo (salvo poi parlare di ruspe da azionare contro persone come noi ma rom e sinti per etnia (impropria dicitura ma sintetizza bene ciò che intendo dire), chi apre un forno e poi lo chiude perché alla fine quel forno non sforna proprio niente.
L’irritazione sul collo del Colle, l’assegnazione di un nuovo incarico e, finalmente, ieri appare in televisione il Presidente della Camera Fico e annuncia che il suo mandato esplorativo non è fallito, che il dialogo tra Cinquestelle e Partito democratico ha inizio e rimane aperto.
Per le decisioni finali tutto è rimandato alla Direzione nazionale del PD del 3 maggio e a consultazioni telematiche di iscritti e simpatizzanti per i Cinquestelle.
Tutto si svolge nella piena, assoluta apparente democrazia che ormai da tempo rimane l’unica ancora di salvezza per una sostanzialità delle parole che tarda a farsi materiale concreto, quotidiano, tangibile e verificabile sul campo.
Ora, il mutaformismo forse qui avrà terminato di esercitare il suo ruolo: sondata l’impossibilità di una alleanza (o “contratto alla tedesca”) di governo con la Lega, il movimento di Di Maio si rivolge al suo più acerrimo avversario, verso il quale ha speso ondate di parole non sempre eleganti, quanto meno stigmatizzanti (ed è tutto un eufemismo) per provare l’avventura di Palazzo Chigi.
Ecco quello che colpisce: questa semplicità di bilateralismo. Prima la Lega e poi il PD. Se fosse toccato a noi comunisti parlamentare con altre forze politiche (e qui siamo per ora proprio nel mondo fantascientifico-galattico di Star Wars!), io dubito seriamente che avremmo preso in considerazione l’ipotesi di aprire un “forno” con il centrodestra e tanto meno con la parte più reazionaria dello schieramento, meno liberale, quella vicina a movimenti europei come il Front National di Marine Le Pen o altri di estremissima destra nazionalista.
Sarebbe stato possibile invece aprire un dialogo con il PD, con i Cinquestelle. Ci troviamo sempre davanti a due formazioni caratterizzate “a destra”: l’una sul piano delle politiche economiche e l’altra sul terreno anche prettamente anti-ideologico, privo di riferimenti culturali se non la fondazione di un nuovo approccio alla politica fatto di assenza di valori novecenteschi o anche tardo-novecenteschi.
Tuttavia, compito di una forza politica comunista è quello di costruire le condizioni per l’avanzamento dei diritti sociali ed anche civili. Compito di una forza politica progressista è adoperarsi per migliorare le condizioni di vita dei più poveri, degli ipersfruttati e farlo condizionando le altre scelte di forze minori.
Siccome siamo nel campo della fantasia, scendendo sul piano reale dei rapporti di forza attuali è evidente che se pensassimo al M5S come ad una forza progressista (anche lontanamente tale), dovremmo giudicare più logico un dialogo col PD rispetto ad uno con la Lega.
Ma siccome non siamo in presenza di una formazione di progresso sociale, il ragionamento va rivisto completamente per chiedersi: quale piattaforma politico-programmatica propriamente detta garantisce un movimento che è pronto cinque minuti prima a fare un governo con Salvini, affermando che “di cose buone con la Lega se ne possono fare” e poi, chiuso quel forno, a spron battuto afferma molto energicamente dai microfoni della Camera dei Deputati che con il PD si sono fatti passi avanti e che un’intesa è possibile?
Delle due l’una: o esiste un programma sostanzialmente comune tra le tre destre che si contendono l’esercizio di governo a Palazzo Chigi oggi (centrodestra etero od omogeneo che sia, PD, Cinquestelle), adattabile soltanto con la correzione di pochissime irrilevantezze, oppure esiste un elemento ancora più decisivo in questo percorso ad ostacoli che viene molto serenamente affrontato senza alcun veto, se non “ideologico”, quanto meno programmatico qui e ora.
Ma Rodi non è qui e qui non si salta. Quindi il mutaformismo rientra in gioco come espressione del trasversalismo politico dei Cinquestelle che rappresentano il liberalismo – liberista dominante con qualche correzione per una buona pace sociale e, parimenti, sono pronti a rappresentare anche il rovescio della medaglia, l’esatto opposto: una lotta contro le ingiustizie che si ferma al livello delle diseguaglianze formali e burocratiche che nascono dalla malagestione del potere pubblico per sembrare ed essere affidabili presso quelli che sovente vengono definiti “poteri forti, quindi l’economia dominante.
Dopo la scissione anticulturale grillina operata sull’onda degli anni del “vaffanculismo” e della distinzione netta e incontrovertibile con qualunque altra forza del sistema della casta e della disonestà che combattevano a pieni polmoni nelle piazze, i Cinquestelle si sono trovati alle prese con la rigidità malleabile dei compromessi dettati dalle regole istituzionali del potere e hanno quindi scelto di essere ambivalenti: popolari e di piazza, quindi di lotta e poi anche presentabili davanti al governo economico del Paese da rappresentare nel governo politico.
Un grande partito come il Partito Comunista Italiano sapeva bene che il rischio di diventare altro dall’alternativa socialista e comunista c’era una volta giunti nelle istituzioni e per questo aveva creato quei “quadri militanti” che avevano studiato profondamente non solo come gestire l’apparato dello Stato e delle singole autonomie locali ma come essere una comunità culturalmente definita e formata in ogni angolo del Paese. Pasolini lo chiamava “il Paese nel Paese”. Oggi è venuto meno, logorato da una voglia di rampantismo e di governismo che ha minato le basi fondamentali di una alternativa di società creata a partire dalle persone e non da una ridefinizione delle istituzioni con controriforme sonoramente bocciate dalla popolazione.
Ma al posto di tutto ciò non c’è una nuova sinistra comunista, progressista anche solo in senso lato. Non c’è nemmeno un Movimento 5 Stelle che vuole fare una rivoluzione sociale, capovolgere i rapporti di produzione, superare il sistema economico in cui sopravviviamo.
Al posto di tutto ciò c’è il mutaformismo. E’ un avversario molto insidioso perché prende le sembianze di ciò che meglio gli serve in quel momento per accrescersi, per rafforzarsi ed apparire “popolare” e magari anche un poco progressista…
MARCO SFERINI
27 aprile 2018
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