Per antonomasia il dubbio è anzitutto amletico, ai limiti di una ontologia un po’ di maniera, che inebria le scene dei palchi teatrali, che si fa esso stesso personaggio in cerca di autore e che, in ogni spettatore, trova una preda a cui avvighiarsi e a cui stare per bene aggrappato. Non lo fa con l’arguzia di uno spiritello elfico, votato per lo più al male, che pretenderebbe di insinuarsi nella mente di ciascuno e di istillargli, per l’appunto, la propria costante presenza su tutto e su tutti.
L’iperobilicità del dubbio cartesiano, estremizzazione di una medoticità che, invece, è utile tanto alla ragione quanto al sentimento, rimane una esagerazione voluta e, pertanto, non è replicabile scenograficamente. Non è uno spettacolo di nuova avanguardia in cui si alternano i personaggi onirici del nostro inconscio, metafore delle ansie, dei timori, dei tentennamenti di cui il Dubbio è signore e padrone.
Semmai il dubitare universale, apocalitticamente totalizzante, sembra piuttosto un rifugio ultimo di uno scetticismo in parte terapeutico, di un evitamento dei problemi che ci si pongono innanzi giorno dopo giorno e, al cui tentativo di soluzione, preferiamo anteporre la imperiturità di una inconoscibilità che ci provoca meno sofferenza interiore, meno dubbi di quanti ne avevamo prima, meno sapere, meno dolore.
Il dubitare, così, è la quintessenza dell’angoscia che viene lenita attraverso la mancata presa di consapevolezza di quello che potremmo conosce ma non voglia. Preferiamo macerare nella lenta agonia che consuma, nel marcescibile che fa penombra alle certezze cui potremmo arrivare e che, per paura della paura, non vogliamo invece traguardare.
Succede per qualunque sorta di esame, scolastico, clinico, dettato dai casi di una esistenza che è, nella sua macroscopica inestrinsecabilità, un’iperbole di per sé stessa, una incomprensione ineguagliabile da qualunque altra.
Qui potremmo invocare il paradosso, il ricorso spontaneo alla mistificazione delle idee, alla loro ostentabile possibilità di tramutarsi in veri e propri drammi collettivi quando il Dubbio signoreggia su un incoscio collettivo e, quella che spesso chiamiamo molto impropriamente “opinione pubblica“, altro non finisce per essere se non un turbamento di massa.
Il dubitare, quindi, non come azione maieutica di riconduzione progressiva in seno ad un barlume di conoscenza di tendenza al verificabile, in quanto similitudine scapestrata della veridicità di quelli che definiamo “fatti“, “concretezze” e, in ultimo, “certezze“; no, il dubitare come stato di masturbazione mentale, come vulcanica forgia di una serie di armamenti acuminati che increspano le onde della nostra mente e non ci aiutano a venire fuori dai disagi che proviamo.
Eppure, se oggi il dubbio è anche e soprattutto questo, c’è stato un tempo in cui, per primo il pensiero filosofico, si nutriva dell’incertezza per tendere alla sicurezza, per mitigare la presunzione dei dogmi da un lato e scardinare i pregiudizi e le ancestralissime credenze mistiche che, deviate nel corso degli eventi da mille leggende e altrettante dicerie, terminavano con l’essere non più le metafore del vivere ma tanti nuovi laici “timor di dio“.
Oggi, invece, quando dubitiamo iperbolicamente di tutto e di tutti, non lo facciamo per controvertire questo salto di qualità, questo rischio probabilistico spinto all’eccesso in un uguale e contrario risvolto che ci porti ad una maggiore consapevolezza su quello che ci circonda. Oggi il dubbio è sempre più sinonimo di “diffidenza“, di infingarda circospezione, di fobia sociale, di atteggiamento guardingo e sospettoso.
E’ una sconfitta per una filosofia della natura in cui il dubbio era stato il protagonista della rinascita scientifica, della scoperta della matematica come lettura perfetta di una complessa geometria cosmologica, empiricamente data dall’osservazione del rapporto tra causa ed effetto. Da Bruno a Telesio, da Campanella a Cartesio stesso, dubitare è piuttosto mettersi nella precondizione di ottenere immediatamente dopo delle nuove conoscenze.
Allora conoscere significava sapere e sapere era, a sua volta, sinonimia di avanzamento espressamente scientifico, del riscontrabile perché verificabile, volta dopo volta, di ciò che poteva essere ripetuto, quindi rivisto, riascoltato, rimesso nella stessa circolazioni delle leggi universali di un comportamento della materia su cui si dibatteva sull’origine e, quindi, sulla stessa provenienza: divina o meno, immanente o trascendente?
L’indagine sulla struttura della Natura, dell’esistente e, pertanto, della nostra stessa vita, aveva superato il vecchio approccio aristotelico e stava facendo, nel secolo di Galileo, il salto verso quel copernicanesimo che avrebbe, eccome, sollevato tanti dubbi ma anche regalato nuove certezze, non senza un tributo di enormi sofferenze, segno tangibile di un vero e proprio trauma collettivo, di una più che certa messa in discussione di un mondo a cui si era creduto per fede più che per ragione.
L’ Ὄργανον (“Organon“) stagirico viene non tanto confutato, visto che si può controvertire soltanto qualcosa che stia sullo stesso piano valoriale, quindi temporale, del suo esatto opposto e, dunque, abbia una sorta di equipollenza, di “diritto” alla confutazione medesima; semmai viene superato nel nome di una tensione anche emotiva che conduce l’essere umano ad aprirsi all’indagine.
Ad esplorare, ad andare oltre le erculee colonne di una antichità in cui il dubbio era anche il grimaldello dell’apperente inconscobilità delle cose come dei pensieri più radicati nel tradizionalismo introspettivo, ma di cui già si intravedevano le potenzialità riguardo la sua capacità di fomentare la critica e, con essa, quella dialettica tanto della natura e materiale, quanto dello spirito, della mente e dell’immaterialità delle idee.
L’origine del meccanicismo moderno, nonchè di una nuova stagione dello spiritualismo, la si ha per l’appunto con Cartesio, con Hobbes: con una rivalutazione proprio gravitazionale del dubbio, attratto dal magnete di un pensiero che si dipana da vecchie incrostazioni di un astrattismo incensurabile, di una metafisica ridotta ai minimi termini dalle nuove scoperte scientifiche e dalle nuove esplorazioni del globo.
Dubitare è per Cartesio l’azione metodologica del separare ciò che è vero da ciò che è falso. Anche, ed anzi soprattutto, nel campo della conoscenza sensibile. Se per Campanella i sensi ci aiutano a sapere, perché ci fanno toccare con mano, vedere con gli occhi ed ascoltare con le orecchie quello che realmente ci circonda, per Descartes non tutto quello che è tangibile, visibile e udibile porta a noi la certezza della conoscenza oggettiva.
Come potremmo altrimenti definire i miraggi nel deserto? Oppure l’effetto ottico del bastone immerso nell’acqua che ci appare spezzato? I sensi possono ingannarci e, per questo, il dubbio va sempre coltivato, ma non deve diventare quell’ossessione paranoica che, in particolare nella nostra modernissima (si fa per dire…) società, è la prima rampa di lancio dello scetticismo complottistico.
Gran parte della filosofia pre-kantiana si allena alla considerazione della ragione come di una dea a cui attribuire il diritto alla erre maiuscola, ma invece come rimodulazione tanto della sensibilità quanto dell’intelletto. Il posto che il dubbio occupa qui è, quindi, di tutto rispetto perché svincolato da timori, paure, fobie, ancestralismi, prevenzioni e pregiudizi, apoditticità che non aiutano il cammino critico e dialettico della scienza e della conoscenza.
Contraltare del dubbio parrebbe quindi essere, nell’epoca cartesiana della moderna filosofia del sapere per conoscere, non soltanto quindi per descrivere il mondo e accettarlo passivamente in quanto tale mediante la traduzione fideistica e il teologismo cattolico (ma non solo…), l'”evidenza“. Quando affermiamo che qualcosa è evidente, lo facciamo perché pensiamo che nessuno possa smentire tanto la cosa oggetto dell’evidenza quanto noi che affermiamo che quell’oggettività è tale.
Chiarezza e distinzione sono i margini entro cui l’evidenza si muove. Una circonferenza della certezza che è data anzitutto dall’appagamento della corettezza percepita dai sensi con la traduzione ragionata che il nostro cervello ne fa: sappiamo che stiamo dicendo il vero se questo corrisponde all’inconfutabile.
E per essere non confutabile, un evento, una cosa, una espressione, una determinata caratteristica di un fenomeno sensibile, devono per forza di cose comportarsi anzitutto secondo le leggi naturali e, pertanto, poter essere percepiti in uguale maniera da tutte e da tutti. Ma, se così è, dobbiamo allora considerare il dubbio qualcosa di inutile?
Basta l’evidenza ad eliminare ogni altro ragionamento, ogni messa in discussione anche di quello che è platealmente oggettivo? A volte basta, altre volte no. Se si tratta di considerare la meccanicistica della sperimentazione scientifica, ad ogni evidenza può corrispondere la corrispettiva precedenza del suo dubbio. Da ogni pensamento e ripensamento nasce qualcosa di nuovo e senza il dubbio tutto questo non sarebbe possibile.
La stessa etimologia della parola ce lo chiarisce (senza dubbio!): dubius, “due“. Una alternativa, un bivio, un doppio viatico davanti a cui stare nel momento in cui si deve fare una scelta. Oppure mentre ancora si deve decidere quale scelta sia quella più opportuna, strologandosi nelle tante opzioni che si fanno avanti, dubbio dopo dubbio, certezza oltre certezza. L’istinto di autoconservazione ci sostiene, nella maggior parte dei casi, nel risolvere le questioni scegliendo quello che preserva tutti, che è quindi un “bene comune“.
Quindi, se la ragione e la dialettica scientifica ci supportano oggettivizzando ciò che prima era soltanto nel campo delle ipotesi, procedendo quindi per tentativi, per sperimentazione empirica, dando risoluzione a molta parte dei nostri dubbi, una parte non meno importante, ma chiaramente molto differente, può farla il confronto tra noi e il resto del mondo, tra noi e ciò che ci è manifesto nell’immediatezza.
Spesso sciogliamo i nostri dubbi quando sappiamo, senza saperne del tutto la ragione, cosa fare, come comportarci. Adottiamo delle scelte seguendo l’intuizione che, a ben vedere, non è mai del tutto scevra dal bagaglio di esperienze che ci portiamo appresso. E tuttavia il dubbio permane un po’ sempre, perché è lui quello spiritello elfico, assolutamente non malefico, che si insunia tra i pensieri e che, molto spesso, ci salva da giudizi precipitosi e da pericolose cadute all’indietro e anche in avanti.
Il dubbio ci preserva da un cieco fideismo nella ragione e, al tempo stesso, da un altrettanto cieco abbandono alla disperazione dell’inconoscibile che, per forza di cose, finisce con il condurci a credenze trascendendali, a supporre piuttosto che a verificare, a sperare piuttosto che ad agire.
«Essere, o non essere, questo è il dilemma:
se sia più nobile nella mente soffrire
colpi di fionda e dardi d’oltraggiosa fortuna
o prender armi contro un mare d’affanni
e, opponendosi, por loro fine? Morire, dormire…
nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine
al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali
di cui è erede la carne: è una conclusione
da desiderarsi devotamente. Morire, dormire.
Dormire, forse sognare. Sì, qui è l’ostacolo,
perché in quel sonno di morte quali sogni possano venire
dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale
deve farci riflettere. È questo lo scrupolo
che dà alla sventura una vita così lunga.».
(W. Shakespeare, “Amleto“, atto terzo, scena prima)
Il dubbio sul dubbio di Amleto. Che cosa significa davvero? E’ una ambivalenza tra esistenza attiva e passiva, tra azione e inerzia, tra vita e morte (molti critici hanno letto nelle parole del principe un interrogativo suicidario), oppure è una riflessione molto diversa e che riguarda l’alternarsi delle passioni e delle contraddizioni in noi stessi? Il dubbio resta. Ed è qui il fascino di una tragedia: vivere accettando la propria sofferenza o ribellarsi, dimenarsi, anche nel dubbio, ma agire e dunque, forse, vivere per davvero?
A voi il dubbio, a voi la scelta.
MARCO SFERINI
26 novembre 2023
foto: elaborazione propria, Cartesio. Laurence Olivier nell'”Amleto” del 1948