Qualcuno ha opportunamente notato che l’ascesa di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi si è realizzata nella assenza di una classe dirigente adeguata, sottolineando la solitudine della presidente del consiglio una volta al governo. Questo quadro, tuttavia, non può cancellare il fatto che Meloni a volte è tutt’altro che sola: rischia di essere male accompagnata.
È nata, cresciuta e si è affermata dentro il mondo del Movimento sociale italiano, negli anni del Berlusconi trionfante e dello sdoganamento al governo delle destre. Dunque sarebbe sbagliato scindere la sua figura da quella di Ignazio La Russa, oggi seconda carica dello stato dalla parlantina sciolta e la gaffe facile che la premier da Vilnius ha dovuto rintuzzare a proposito delle uscite in difesa del figlio Leonardo Apache.
La Russa è stato il principale artefice del progetto di Fratelli d’Italia. Di più, la stessa Meloni nel memoir Io sono Giorgia gli riconosce il merito di essersi fatto garante della linea di continuità postfascista dopo gli anni del berlusconismo, della rottura con Gianfranco Fini e del partito unico.
«La presenza di Ignazio diede al progetto una solidità che spinse diversi parlamentari del Popolo della libertà provenienti dalle file di Alleanza nazionale a lanciarsi in questa folle avventura», racconta la leader di FdI ripercorrendo i momenti della nascita del partito che guida fin dall’inizio. È questo il ruolo che in fin dei conti gli viene riconosciuto quando, a spese di Roberto Calderoli, Meloni si impunta per portare La Russa sullo scranno più alto di Palazzo Madama.
Ogni volta che Meloni proverà ad emanciparsi dal suo passato, e magari a uscire dalla sindrome di accerchiamento che ha manifestato fin dal suo discorso di insediamento, lo sguardo e la voce inconfondibile del presidente del Senato stanno lì a ricordare ala matassa di relazioni, interessi, tic ideologici, riflessi pavloviani che caratterizza la destra post-missina al governo.
Meloni e La Russa si tengono perché rappresentano due facce complementari e solo all’apparenza incompatibili della galassia politica di riferimento. La prima si è cucita addosso (su basi invero fragili, quando non del tutto inventate) l’immagine della donna senza padre che si è fatta da sé partendo dai margini dello schieramento politico. La Russa deriva dal neofascismo meneghino, poco avvezzo alle periferie e ancora meno «sociale».
È il volto all’apparenza bonario che diventa all’improvviso luciferino della destra d’ordine borghese, della maggioranza silenziosa e delle relazioni con il mondo degli affari. Quelle entrature si sono evolute e riprodotte, in forma caricaturale perché adatta ai tempi, lungo l’esemplare linea che da La Russa conduce a Daniela Santanchè, e che ci ricorda l’altro inceppo della maggioranza.
Da questo punto di vista possiamo leggere la singolare operazione immobiliare che ha coinvolto la moglie di La Russa e il fidanzato della ministra del turismo Dimitri Kuntz svelato dal Domani. I due acquistano una villa in Versilia dal sociologo (e consigliere molto ascoltato da Meloni) Francesco Alberoni per rivenderla nel giro di un’ora all’imprenditore milanese Antonio Rapisarda, realizzando una plusvalenza di un milione di euro.
Sempre in Versilia, ha rivelato qualche giorno fa Michele Masneri sul Foglio, Kuntz sarebbe stato visto scorrazzare in Porsche insieme ad Andrea Gianbruno, il compagno della premier. È un’immagine che rappresenta l’incrocio tra le forme di vita di riferimento di questa vicenda: la borghesia arrembante che sta dietro al mondo di La Russa e il popolo dei forgotten che Meloni dice di voler rappresentare.
GIULIANO SANTORO
foto: screenshot ed elaborazione propria