Forse mai come in questa occasione la manovra economica si intreccia con quella politica, quasi oscurata da quest’ultima, giocata sullo sfondo del Def e del Pnr (Programma nazionale di riforme), nonché della “manovrina” di 3,4 miliardi di euro voluta da Bruxelles.
Il punto è che il Pd, in affanno di consensi, non può rischiare di presentarsi alle elezioni, in ogni caso molto prossime, come l’esecutore inflessibile di una politica rigorista a fronte di un’economia con ritmi da bradipo. E il suo segretario-padrone, Renzi, non può mancare l’appuntamento rigeneratore delle primarie del 30 aprile, dopo gli schiaffi presi dal plebiscito capovolto del 4 di dicembre. D’altro canto il governo fotocopia giorno dopo giorno rafforza la sua crescente ambizione di durare fino alla morte naturale della legislatura. Come insegna l’indecente vicenda del voto di fiducia sui decreti Minniti-Orlando.
Così è andato in scena un ministro Padoan prono ai diktat europei e di un Renzi fautore di un surplus di flessibilità. Il primo ha cercato l’appoggio preventivo alle misure approvate ieri dal CdM da parte di Dombrovskis, vicepresidente della Commissione europea e di Pierre Moscovici, commissario agli Affari economici. E lo ha ottenuto, come era prevedibile. Dal momento che o l’Italia accettava il capestro della manovrina aggiuntiva o si esponeva alle conseguenze delle procedure d’infrazione.
Ma la demagogia di Renzi non poteva spingersi fino a questo punto. Se non altro perché si sarebbe ripercosso sul dopo. Perché la vera partita non si gioca ora sul Def quanto sul Nadef di autunno, ovvero, al di là della cacofonia degli acronimi, sulla Nota di aggiornamento del documento di politica economico finanziaria. Il governo è atteso al varco delle cosiddette clausole di salvaguardia, pari a 19,5 miliardi di gettito annuo derivante dall’incremento dell’Iva dal 10 al 13% e dal 22 al 25%. Una mazzata per i consumi, per chi ha redditi più bassi e per l’economia nel suo complesso. Il tutto tra settembre e ottobre. E il governo spera che per allora si concluda l’istruttoria avviata a livello europeo per la revisione dei criteri che determinano il valore del deficit strutturale.
Intanto Padoan ha maggiorato di un decimale la previsione di crescita, dall’1 al 1,1%, ma in compenso ha ridimensionato quelle relative agli anni a seguire. Per il 2018 dall’1,3 all’1%, per il 2019 dall’1,2 all’1%. La colpa sarebbe di una politica fiscale particolarmente stringente, che “fa parte degli accordi europei” che né il governo né il Pd, al di là delle sceneggiate, hanno alcuna intenzione di modificare.
E quest’anno si dovrà decidere se integrare o meno il Fiscal compact nell’ordinamento Ue. Il Pd – in coerenza con il suo fanatismo rigorista che lo spinse alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio – nel febbraio scorso ha già votato nel parlamento europeo per farlo. Il che pregiudicherebbe le politiche di bilancio per i prossimi venti anni, vista l’elevata differenza del nostro debito dall’obbiettivo del 60%, livello al quale si vorrebbe ridurlo.
La follia sta per diventare realtà, se non si svilupperà una coerente opposizione di popoli e paesi.
Nella conferenza stampa Padoan ha celebrato le politiche di “benessere e di inclusione sociale”. Non si vede quali, a meno che non intendesse i bonus che hanno fatto la fine a tutti nota. E’ impossibile praticare simili politiche senza un rilancio degli investimenti. E quelli pubblici dovrebbero trainare quelli privati. Ovviamente bisogna intervenire nelle zone terremotate – su cui si costruiscono contenziosi con la Ue – ma il tema degli investimenti è ben altro.
Gli investimenti in Italia sono al di sotto dei livelli pre-crisi del 2008 (-28%). La componente pubblica degli stessi è in picchiata: dal 2009 un 35% in meno. Eppure l’ effetto moltiplicatore di buoni investimenti pubblici è più del doppio di quello che si ottiene con trasferimenti e detassazioni. Un investimento pubblico partito in deficit, in settori innovativi, che fanno bene all’ambiente e all’occupazione, in un biennio può autofinanziarsi, grazie all’effetto espansivo. Se si vuole benessere e inclusione di questo bisognerebbe parlare e decidere. Ma ci vorrebbe un’altra classe politica. Non un governo fotocopia.
ALFONSO GIANNI
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