Le scelte si pagano. E si pagano anche duramente. Con l’umiliazione a volte. E questo è uno di quei casi estremi in cui, alla presa d’atto di tutti gli alibi possibili per provare a trovare una qualche giustificazione, il risultato è così deludente e deprimente da indurre a qualcosa di più di una riflessione ed una analisi. Bisogna ripensarsi proprio sul piano culturale-politico oltre che su quello tattico. Perché manca una strategia di lungo corso che sostituisca la precedente.
Alla prova dei fatti, quindici e più anni di tentativi di costruire un polo dell’alternativa per “rompere la gabbia” del bipolarismo sono lentamente naufragati nel deperimento letteralmente organico della sinistra cosiddetta “radicale” rappresentata da Rifondazione Comunista un tempo e poi anche da altre sigle come Potere al Popolo!, senza potere e senza nemmeno il popolo dietro sé, nonché da un PCI che simbologicamente pretende di essere l’erede del vecchio Partito Comunista Italiano ma che lì si ferma.
Il tentativo di scardinare il bipolarismo in Italia è ormai, per questa fase, fallito. I Cinquestelle, liti a parte sul piano nazionale per il contrassegno, hanno esaurito la loro funzione rivoluzionaria (non nel senso bolscevico del termine, si intende…) di destabilizzazione delle posizioni, di alterazione della incrostatissima realtà delle consorterie politiche in alternanza fra loro e si sono collocati nel campo progressista che fatica ad essere un campo veramente largo.
Dal canto suo, Rifondazione Comunista, in attesa del dodicesimo congresso nazionale che dovrebbe darle una linea politica precisa e definita, si muove e naviga a vista: in Umbria fa alleanze, in Liguria corre solitariamente con le formazioni più settarie ed edonisticamente ipercomuniste possibili. Capaci di esercizi di autocompiacimento, prive di un reale mordente nelle classi che intendono rappresentare. La sconfitta di Orlando non è, troppo semplicisticamente, attribuibile alla mancata alleanza tra Rifondazione e il fronte delle forze di progresso.
Ma c’è del vero nel dire, come ha dichiarato Orlando, che «…non abbiamo messo un veto su Rifondazione Comunista. Peraltro, ad un certo punto, Rifondazione Comunista aveva manifestato la possibilità di una presenza nel Centrosinistra come aveva fatto in altre regioni. Poi, una discussione molto aspra all’interno del suo gruppo dirigente ha portato invece ad una scelta diversa. Mi auguro che questo risultato induca tutti ad una riflessione. Credo che Bucci sia stato il più contento della scelta di Rifondazione Comunista».
Non che il riesumato centrosinistra di oggi sia incolpevole dell’emarginazione della sinistra di alternativa, anzi… Ma è vero che il dibattito interno a Rifondazione Comunista ha preferito approdare ad una soluzione che escludesse a priori il dialogo col campo largo e che, quindi, desse una lettura della fase impostata su una equipollenza sostanziale tra centrodestre e centrosinitra senza alcuna distinzione. Nemmeno riguardo al piano dei diritti civili o umani o, anche solamente (e non sarebbe affatto poco di questi tempi) sul terreno della difesa dei valori costituzionali, resistenziali e antifascisti.
Le compagne e i compagni che propongono l’opzione terza, l’alternativa senza se e senza ma, vedono in un tentativo di avvicinamento al campo progressista un cedimento ad una logica omologante che, quindi, non tiene conto del fatto che, una volta al governo, destra e sinistra sono praticamente uguali sotto ogni aspetto. Non c’è dubbio che le similitudini sono esistete e, tutt’ora, se parliamo di guerra, di pace, di armamenti, di economia, di rapporto tra imprese e mondo del lavoro, di pubblico e privato, le differenze tra Rifondazione e il PD sono piuttosto nette e marcate.
Ma è pure vero che la politica è questione sociale, è ambito civile ed è il prodotto di un insieme di fattori dinamici e dialettici che, proprio perché tali, inducono ad una continua considerazione e riconsiderazione anche e soprattutto delle proprie posizioni. Se non si fosse provato per un quindicennio ad agire nella direzione della costruzione di un soggetto autonomo dell’alternativa di sinistra, oggi si potrebbe convenire sul fatto che innumerevoli fattori hanno condizionato il risultato. Si tratta di elementi comuni per tutte le forze politiche, poiché esterni e oggettivi.
Ma date queste premesse, considerando che, indubbiamente, ogni partito o movimento risponde ai rapporti di forza con una reazione diversa a seconda della propria consistenza e presenza nelle istituzioni come nella società, la prima constatazione che deve riguardarci, come comuniste e comunisti, è la fine di un ciclo in cui si è provato, gareggiando con i Cinquestelle sul piano della nuova rappresentanza politica e sociale delle classi meno abbienti così come del ceto medio. Ci siamo avvitati in una spirale di contraddizioni derivanti da un logoramento istituzionale seguito da uno extraistituzionale.
Per cui, dal 2008 in avanti, Rifondazione Comunista ha patito l’internità al centrosinistra e la partecipazione ai governi; mentre, dopo le tante sperimentazioni delle presentazioni in alternativa a tutti i poli esistenti (Cinquestelle compresi, completamente afferenti alla logica della eguale presentazione solitaria ma con un successo dettato dalle proposte populiste anti-casta e da un disprezzo per il Parlamento e “i politici” che non ci è mai appartenuto) ci hanno condotto all’attuale stato delle considerazioni qui esposte, dopo l’ultimo schianto per niente incidentale nel voto ligure.
Se non glielo avessero chiesto, Orlando non avrebbe parlato di responsabilità di Rifondazione Comunista per la sua sconfitta. Non ve ne sono, infatti, visto il distacco tra lui e il “sindaco della Liguria“, e vista soprattutto l’abitudine del campo progressista a pensarsi nella sua parte più di sinistra nel limite geopoliticamente rappresentato da AVS che oggi, per l’appunto, ha lo spazio politico un tempo del PRC, anche in termini di percentuali e voti assoluti.
Bisogna prendere in considerazione un fatto: chi propone oggi, nella imminente fase congressuale che Rifondazione affronterà a breve, di proseguire sulla linea dell’alternativa a tutti i costi, perché equipara senza alcuna distinzione anche minima destre meloniane e salviniane ai Cinquestelle, al PD di Schlein e ad Alleanza Verdi e Sinistra, esclude dalla propria critica e analisi della fase l’evidenza che riguarda il tipo di approccio che hanno queste forze nei confronti del mondo del lavoro e della precarietà, di un recupero dello stato-sociale che non è l’abbattimento e il superamento del capitalismo, ma la precondizione per lotte ancora più incisive.
Certo, è una questione di voti. Di numeri, di consensi. Ma anche di non voti, di vuoti, di dissensi che non si traducono in “alternativa” ai poli esistenti, ma che restano a casa o che preferiscono fare altre scelte perché sono stanche dell’irrilevanza nonostante la voglia di potersi esprimere, fare ed essere sinistra e di alternativa. È una questione di deperimento della democrazia da molto, troppo tempo. Ma se la ricetta dell’alternanza non paga, nemmeno assolve il suo compito quello dell’alternativa che non riesce a creare, almeno da un tre lustri a questa parte, un luogo socio-politico in cui far convergere la rabbia, i diritti ed anche i doveri.
Ed è anche una questione di costruzione dell’alternativa stessa: se la immagini e la pratichi settariamente, pensando di rappresentare il popolo, quando popolo dietro di te non ne hai e tu non vuoi, peraltro, nemmeno essere un generale, perché sei antimilitarista, pacifista o perché proprio preferisci l’assemblearismo e il collettivismo al vertice, nessuna concreta aderenza tra ciò che proponi e ciò che è potrà mai realizzarsi compiutamente.
Una differente cultura dei rapporti a sinistra può avere un senso, naturalmente, se si intendono fare politiche che vadano nell’esatta contraria direzione di ciò che stanno facendo, in ogni direzione di spesa (o di contenimento della stessa…), le destre di governo. Dove loro tolgono, i progressisti dovrebbero mettere. Dove loro privatizzano, i progressisti dovrebbero pubblicizzare di nuovo e, anzi, riprendere a considerare lo Stato come la prima istanza di tutela del benessere comune e dei beni che lo sono altrettanto.
Il compito di Rifondazione Comunista dovrebbe quindi, nella attuale fase di crisi multilaterale e multistrato, quello di procedere ad una implementazione delle ragioni condivise sulle controriforme costituzionali, su una rivalutazione della qualità democratica della vita singola e collettiva supportata da una rimodulazione della distribuzione delle ricchezze: a cominciare da tutte quelle proposte su cui può esservi una convergenza, come il salario minimo, fumo negli occhi per centristi iperliberisti e, nemmeno a dirlo, per le destre di governo.
L’alternativa la si costruisce non separandosi dal contesto politico e arroccandosi nel fortilizio dell’estremissima coerenza e purezza, ma mettendo a confronto le nostre proposte con le loro e, partendo dai valori comuni – che ci sono e che sono oggettivi -, provare a mettere a terra una serie di punti dirimenti per il recupero del potere di acquisto dei salari, delle pensioni; per la scuola, come per la sanità pubblica. Per l’ambiente e per i diritti civili ed umani. Fare tutto questo in prospettiva di lunghissimo termine, pensando ad un solo proprio programma rivoluzionario qui ed ora, capace di rovesciare gli attuali rapporti di forza, è prendersi in giro.
Ed è prendere in giro tutte quelle persone e qui lavoratori, quei precari e quei disoccupati che attendono hic et nunc un qualche segnale di cambiamento di indirizzo. Il centrosinistra in passato ha tradito queste aspettative tante volte. Ed anche noi non siamo stati in grado di arginare gli effetti di quelle torsioni liberiste. Ma la nostra poca forza si è, via via, ridotta mentre si comprimeva la credibilità che potevamo avere con così pochi consensi.
Nonostante la giustezza delle nostre posizioni non siamo riusciti a recuperare voti nei settori popolari e a costruire delle sinergie con le forze sociali, sindacali e culturali per fare una massa critica tale da competere con il PD sul terreno della rappresentanza popolare. Diversa l’opzione alleantista tra Europa Verde e Sinistra Italiana che, infatti, raccoglie molta parte dell’elettorato un tempo di riferimento per Rifondazione Comunista. In fondo, la composizione antropologica (culturale e sociale) dei votanti non è molto cambiata.
Sono mutati i fattori di crisi che ne hanno determinato l’astensione sempre più massiccia dalle urne e il riconoscersi in progetti politici che potessero avere una qualche voce nel Parlamento così come nel Paese, nei consigli regionali così come nelle realtà locali dei singoli comuni. Proporsi come alternativa e non riuscire a concretizzare per lo meno i prodromi della stessa, è o sterilità vaniloquente e mitomaniaca di sé stessi, oppure accecante miopia intrisa di tutto fuorché di un rapporto reale con la cruda realtà della disperazione oggi crescente.
MARCO SFERINI
29 ottobre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria