Si rinsaldano le minoranze, le correnti, le pseudo opposizioni interne al Partito democratico: tutto è in sommovimento, frenetico, ingestibile persino dal punto di vista delle cronache che tentano di arrancare dietro ad una corsa folle al riposizionamento degli ormai inesistenti equilibri politici che, come dopo un terremoto devastante, provano a ridare un senso proprio al partito stesso.
Sembra infatti che il PD abbia smarrito quasi la sua ragione d’esistere: Renzi è sotto assedio dopo la sonora batosta ricevuta con quel quasi 60% di elettori che ha respinto la sua controriforma costituzionale.
Renzi, pare, è stato tentato quella notte fatale tra il 4 e il 5 dicembre dal dare le dimissioni anche da segretario del Partito democratico. Poi qualche saggio (si fa per dire…) consigliere politico l’ha persuaso che non è poi così nobile, anche agli occhi della storia presente e futura, lasciarsi andare alle emozioni, farsi prendere dalla rabbia e dall’isteria e che molto vi era e vi è da gestire.
Del resto, il PD più che un partito – stato è un partito – economia, un partito che in questi anni ha saldato i rapporti fra politica e borghesia imprenditoriale sia del patrio suolo sia d’oltralpe. Rappresenta per l’Unione Europea il proconsole politico che gestisce le politiche di tutela degli interessi finanziari che avrebbero voluto, proprio grazie alla controriforma bocciata dal popolo italiano, avere più campo libero senza troppi balzi e rimbalzi di discussioni sulle leggi, liquidando quella rigidità costituzionale che ancora, invece, rimane l’unica garanzia sociale a protezione di possibili, nuove lotte per accrescere i diritti dei più deboli di questa società.
L’attenta analisi di commentatori tutt’altro che comunisti, ma ben legati a giornali di chiara tendenza liberista, ci dice che persino il ministro Franceschini sta pensando, con la sua Area Dem, di avvicinarsi alle problematicità e alle critiche espresse ormai da tempo da Massimo D’Alema, Pierluigi Bersani, Roberto Speranza e Michele Gotor.
Si starebbe avvicinando, con facili approdi, anche il ministro della giustizia Andrea Orlando.
E’ ancora presto per dire se questo compattamento delle stigmatizzazioni post-referendarie possa essere quella “tenaglia” che metta il segretario – ormai presidente del consiglio dimissionario – nella condizione di difendersi, invece che di passare all’attacco.
Ma, conoscendo un poco Matteo Renzi, è sicuro che non rinuncerà alla lotta e che si batterà per preparare un ritorno in grande stile…
Proporrà qualche sfida: o lui o il diluvio? O lui o chi altro? E le minoranze dovranno saper rispondere con lucidità, evitando incertezze, lasciando indietro ora balbettamento politico.
Sarebbe interessante capire se esiste davvero, o no, una possibilità di tentare la scalata alla riconquista del PD da parte delle ex correnti socialdemocratiche e di quelle popolari che si incontrano ora dopo la sconfitta totale sul fronte referendario.
La botta è stata forte e, persino uno come Renzi che, gliene va dato atto, è quasi meglio di Berlusconi nel friggere l’aria e nel proporla ovunque e comunque, non può oggi mostrare i muscoli ma giocare di umiltà, con apparenti sentimenti di ricomposizione del partito. Ma ci sono strappi che si possono ricucire, altri che nessun ago e nessun filo possono accomodare…
Dalla sua Renzi ha la garanzia che il fianco sinistro, quello che costruisce l’ “apparente sinistra” che si schiererebbe con il PD per costruire un fantomatico ritorno del centrosinistra, sarebbe coperto dal tentativo di Giuliano Pisapia, di Massimo Zedda e di altri possibili fuoriusciti dalla ancor non nata Sinistra Italiana.
Non sono bastati gli esperimenti di “Italia Bene Comune” con Bersani, non sono bastate le mutazioni genetiche vere e proprie di questi tre anni con la cavalcata del renzismo a tutto spiano: Pisapia ci avverte che il pericolo delle destre esiste e che lui vorrebbe provare a fermarlo così, alleandosi con una di queste destre.
Con quella che ha fatto del protezionismo dei profitti e della deregolamentazione del mercato del lavoro in nome della più aspra liberalità e della consacrazione di nuovi schiavismi (voucher docet) il punto forte delle riforme: il Jobs act è lì, monumento vivente e anche morente di una concezione del lavoro come variabile dipendentissima dalle sole esigenze dei padroni, della finanza, delle grandi banche.
Di quale destra ci parla Pisapia quando intravede un pericolo? Quella classica, storica: quella di Salvini, Berlusconi e Meloni? Forse anche quella grillina.
Il problema di questa sinistra che vuole proteggerci dalla destra è proprio questo: la cecità politica che non permette di vedere (o che non vuole vedere) il cambiamento di campo, la scelta opposta a quella fatta un tempo da chi aveva abbandonato sì il comunismo come orizzonte alternativo a questa società capitalista, ma comunque si manteneva nel solco delle riforme di struttura, nella tradizione almeno socialista democratica.
Tutto questo il PD non solo non lo rappresenta, ma non lo è proprio più.
Intanto le consultazioni al Quirinale vanno avanti e tra pochi giorni sapremo quale prima fase dovrà affrontare la crisi di governo. Il toto-nomine sul presidente del consiglio incaricato è una pratica demoralizzante, stancante e non aiuta a capire niente se non si conoscono i dialoghi che avvengono nelle segrete stanze del Colle.
E siccome ciò non è dato saperlo, nell’attesa è utile ribadire che la soluzione migliore a questo gran pasticcio è il ritorno alla urne quanto prima possibile.
Il nodo della legge elettorale è legato in parte al governo che verrà e in parte alla Corte Costituzionale. Ma non è un nodo gordiano, è semplice da sciogliere: basta fare una legge elettorale con la proporzionale pura, senza sbarramenti. Tornado a quel 1992, prima dell’era del maggioritario, quando in Parlamento c’erano soltanto 13 forze politiche riunite in gruppi e non 40 come oggi.
La “semplificazione” politica e la “velocizzazione” dell’attività parlamentare nella costruzione delle leggi passano per il ritorno della ridefinizione chiara dei confini tra le forze che rappresentano delle idee, delle ideologie.
Il ritorno alla proporzionale e alle ideologie come fenomeni di passione politica, di partecipazione attiva dei cittadini, come nel caso del referendum del 4 dicembre, sono il sale ritrovato della vera democrazia costituzionale.
I comitati per il NO, in questo caso, rappresentano un presidio di difesa tanto della Repubblica quanto di una reinvenzione della vita sociale, politica e civile di questo Paese che, per troppo tempo, ha vissuto separando le istituzioni dal suo popolo, creando una frattura che sembrava irrimediabilmente insanabile.
Si può ricucire lo strappo tra Repubblica e popolo, non si può ricucire lo strappo tra chi ha scelto il SI’ e chi ha, invece, scelto di difendere la storia, l’attualità e il futuro dell’Italia democratica e costituzionale.
MARCO SFERINI
9 dicembre 2016
foto tratta da Pixabay