Le mutazioni genetiche e le metamorfosi dei partiti e dei movimenti, a cui in questi anni abbiamo assistito, sono state tante e di così grande rilevanza da rendere veramente molto difficile il poterne fare una sorta di classifica stigmatizzante, biasimevole o, anche molto semplicemente, constatante l’irrequietezza della politica italiana, il suo trasformismo peloso, il suo essere sempre molto servile e al tempo stesso perbenista.
Destra, centro e cosiddetta “sinistra di governo“, nessuno è scampato alla furia riorganizzatrice, alla riconsiderazione non soltanto di posizioni parlamentari, di luoghi veri e propri della politica italiana in seno al Parlamento e, di riflesso, nella percezione popolare, ma soprattutto di quelle fondamenta post-ideologiche di cui molti cosiddetti innovatori e rivoluzionari anti-casta degli ultimi vent’anni andavano solennemente fieri.
Citarsi è poco elegante e lo è anche, in un certo qual modo, sfoggiare una piccola vanteria per aver previsto certe circonvoluzioni di forze che aspiravano alla purezza e all’incontaminato profilo politico, sociale e morale su cui stavano investendo tutto il loro presente e futuro istituzionale, tutta la loro fortezza empatica, il loro legame saldo con nuove generazioni ribelli e con una media età pronta a lasciare le convinzioni della giovinezza tradita da pentapartiti e da voli di gabbiani antitangentopolizi.
Citarsi è poco elegante, ma tant’è un po’ di civetteria politica non guasta in questi casi, fa bene all’autostima che, inevitabilmente, fiaccata dalle perversioni di una politica demoralizzante, tende a venire progressivamente meno.
Citarsi non come profeti di sventura, non per esibire chissà quale saccente rivalsa su chi era assolutamente sicuro che il Movimento 5 Stelle non si sarebbe mai e poi mai fatto inghiottire dalla bulimia dell’istituzionalismo, oppure giammai si sarebbe fatto sedurre dal compromesso del potere per il potere; piuttosto per dimostrare che la corruttela benevola della gestione di una forza crescente, di un consenso amplificato nel giro di pochissimi anni, doveva in qualche modo essere introiettata dai pentastellati e messa a confronto con quel sacerdotale, icastico, diamantico taglio perfetto dei contorni di un movimento incorruttibile, imperturbabile, quasi insensibile agli stimoli che provenivano dagli altri competitori.
La rivoluzione casaleggiano-grillina, tutta improntata sull’esclusività del cambiamento meramente istituzionale, sovrastrutturale e, quindi, ferma su quel limitare dove non esisteva nessuna prosecuzione critica nei confronti del capitalismo e del liberismo moderno, ebbene quella rivoluzione pretendeva di imporre comportamenti ascetici, astinenze catodiche, lunghe giaculatorie e impetuosi anatemi contro una classe politica e una struttura economica di cui, nemmeno troppo tardi, è entrata a far parte a pieno titolo.
Il matrimonio giallo-verde con la Lega è stato il primo passo fatto verso un adeguamento alle circostanze, dopo una serie di annunciazioni dell’Elevato e dei suoi giovani cavalieri dell’onestà al popolo che urlava “vaffanculo” fino a poco tempo prima proprio a tutti, ma proprio a tutti gli altri politici.
La giustificazione del primo, come degli altri cento cambi di rotta del Movimento 5 Stelle, non ha avuto bisogno di grandi discorsi, perché all’epoca bastò enfatizzare la forza elettorale balzata oltre 30% per convincere un po’ tutti i sostenitori e votanti che adesso era il momento, che quello era il passaggio cruciale attraverso cui tutto (o quasi) sarebbe cambiato veramente.
Invece nulla di tutto questo è avvenuto. Dopo aver prodotto l’ennesimo, grande effetto illusorio su una politica che veramente avrebbe potuto disarcionare le vecchie abitudini consolidate, le prassi conclamate tra malaffare e ruolo pubblico della politica, tra interessi privati e beni comuni, il lascito finale del Movimento ha coinciso con una nuova scottatura per chi si era ripromesso di non cascarci.
Una nuova scottatura proprio per chi riteneva, del tutto in buona fede, di avere finalmente trovato un punto di riferimento dopo il crollo della sinistra, del movimento comunista, delle grandi idee di uguaglianza, libertà e giustizia sociale che avevano fino ad allora contraltarizzato la conservazione reazionaria, la difesa dei privilegi di classe, la diarchia antirepubblicana fissata nel binomio tra corrotti e corruttori.
Il vuoto lasciato dalle forze di sinistra, moderate o pseudo-rivoluzionarie che fossero, al tempo dell’emersione del grillismo, passato l’innamoramento di gran parte del Paese per l’effetto ipnotico del berlusconismo affaristico e opportunistico, non è stato riempito da una vera alternativa di società, ma solo occupato da un surrogato della stessa.
Il fallimento del progetto pentastellato, conclamato ancora di più oggi nel logorio della moderna vita governativa della maggioranza di unità nazionale draghiana, non conosce una pagina conclusiva, un capitolo finale, ma sempre e soltanto un inglorioso punto e a capo. Beppe Grillo deve mandare messaggi rassicuranti, fare da intercapedine tra Conte e Di Maio, in un Movimento dove le correnti spifferano di tutto e di più, si incrociano e si guardano in cagnesco.
Ormai di due movimenti non ne se fa più uno, nonostante le percentuali dei sondaggi che assegnano ai Cinquestelle ancora un dignitoso 14% dei consensi. L’impressione è che si tratti di un elettorato incapace di soffrire ancora affidandosi a qualche altro progetto politico, talmente smarrito e comunque consapevole del vuoto e dell’inconsistenza delle altre forze politiche, se le si guarda dal punto di vista del cambiamento sociale, del miglioramento delle condizioni di vita dei ceti più deboli e fragili, da restare abbarbicato all’ultimo scoglio, ad una disperanza che non ha più il gusto della rivoluzione.
Di volta in volta prende la forma dell’acqua: si faceva plasmare dai contenitori istituzionali e del potere già nel Conte I, ha continuato – per “senso di responsabilità verso il Paese” (si intende) – con il governo giallo-rosso, così da sentire meno attrito e meno dolore nello stare in una nuova maggioranza così assurda da essere ben oltre l’immaginabile. Chi si fosse fatto ibernare dopo l’affermazione elettorale dell’oltre 30%, magari giusto un attimo dopo quei confronti in diretta Internet con Bersani, strabuzzerebbe gli occhi nel leggere la storia del Movimento 5 Stelle da allora ad oggi.
Eppure tutto questo è avvenuto e continua ad avvenire. Le sorprese sono finite? Non è affatto detto. Se si tornasse al voto nel 2023 con una legge elettorale proporzionale, è possibile che l’ibernato, scongelato per tempo, potrebbe forse riscontrare qualche cenno di recupero delle origini, nella dialettica comiziale, nelle prove di riconvincimento della base grillina e del popolo pentastellato che, slegato dal “senso del dovere” (e, per carità, dal “peso del potere“…) governisticamente parlando, tornerebbe ai toni accesi dibattistiani, allo splendido isolamento nella torre d’avorio, cercando una verginità nuova ma, purtroppo (e per fortuna, nemesi della storia recente), non retroattivabile.
La buona (quindi pessima) compagnia in cui si trovano i Cinquestelle li ha resi ormai pienamente organici ad un “cretinismo parlamentare” che ha oltraggiato il Parlamento stesso, facendo sopravvivere – tra le tante riforme che si erano prefissi di mettere in campo – l’unica che indebolisce la democrazia rappresentativa, non allarga i polmoni della discussione tra le Camere ma la comprime, la costringe, nel nome della minore spesa pubblica per i cittadini, ad un risparmio delle energie migliori: quelle del confronto serrato, anche più lungo delle velocità del cosiddetto “mondo moderno“, ma forse più sicuro nella formazione delle leggi.
Il taglio del numero dei parlamentari, oltre alla disillusione creata in milioni e milioni di persone, è il lascito che i Cinquestelle consegnano, nel quasi post-pandemia, all’Italia. Un concentrato di populismo e di niente altro. Vivetelo come qualcosa da attribuire all’onirismo, voi che avete votato il M5S. Noi che l’abbiamo sempre criticato e osteggiato, abbiamo già la nostra pena: l’inconsolabile condanna dell’aver visto oltre le apparenze, gli slogan e quelle collocazioni nel deretano di una politica che, in fin dei conti, peggio di questo trasformismo non era.
MARCO SFERINI
6 febbraio 2022
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