Per una sorta di nemesi dell’immediatezza, contrariamente alla classica caratteristica della dea della vendetta che si fa viva dopo qualche tempo, è probabile che oggi, proprio mentre scriviamo, dopo che la ex deportata nei lager nazisti Liliana Segre, senatrice a vita della Repubblica Italiana, avrà presieduto la prima seduta della camera alta del nostro Stato nella XIX Legislatura, a sostituirla sullo scranno più alto dopo quello del Quirinale sarà un mai veramente pentito del suo passato di missino, quindi di nostalgico del ventennio più atroce della storia d’Italia.
Un contrappasso istituzionale che regala ingenerosamente la cifra del mutamento che si è prodotto con un voto democratico che ha affidato la maggioranza relativa dei consensi ad un partito che ha nel suo simbolo il simbolo del MSI: quella fiamma tricolore che è sempre stata fuori dall'”arco costituzionale” e che, come tale, avrebbe dovuto essere considerata.
La storia del dopoguerra sembra essere sempre più etichettata come un ferro vecchio del passato, qualcosa da affidare esclusivamente allo studio universitario e a quello molto meno approfondito delle scuole di ogni ordine e grado.
La collocazione piena degli eredi del neofascismo nel nuovo arco costituzionale, che si è inscritto nello Stato italiano moderno, quello della cosiddetta “seconda repubblica“, è stata sancita da decenni di decostruzione di una memoria collettiva che si fondasse sui valori della Resistenza e dell’antifascismo, trattati come fastidiosi punti di riferimento di un dibattito pretestuoso, partigiano in tutti i sensi e incapace di riunire l’interezza nazionale, tutta la popolazione, entro i confini di una morale civile, sociale e culturale che, una volta per tutte, facesse i conti con il proprio ingombrante passato.
Compromessi e compromissioni tra politica di palazzo e rapporti economici, tra voglia di governismo e al contempo di una rappresentanza della lotta sociale sempre più relegata al ruolo di comprimaria delle scene di sopravvivenza quotidiana del mondo del lavoro, hanno finito col determinare un perfetto clima di decontestualizzazione dei fatti di ieri dal presente.
L’antifascismo, trattato anche dalle associazioni che lo hanno e tutt’ora lo rappresentano, come un insieme di ritualità da esperire ogni anno e da far culminare con le giornate di aprile, si è fatto vecchio prima del tempo, si è riempito delle pieghe di rughe che i suoi avversari volevano che avesse.
Così, convincendo la maggior parte degli italiani che si trattava di qualcosa di anacronistico e di intrattabile al giorno d’oggi, con gli scottanti temi che ci troviamo a trattare (e non certamente soltanto dall’ultimo biennio pandemico e bellico), la narrazione uguale e contraria sul riconoscimento di una condivisione mnemonica e, soprattutto, la cancellazione delle differenze fino a trent’anni fa esistite tra partiti antifascisti e MSI, hanno sostituito il substrato culturale che aveva fondato la Repubblica e dato vita alla Costituzione con una teorizzazione mista tra riabilitazione di un passato che non passa e legittimazione di una classe dirigente che non si è mai definita apertamente antifascista.
Il berlusconismo è stato il trampolino di lancio di una riconciliazione nazionale non disconosciuta dalla sinistra moderata che ha avuto, per prima, ruoli di aggregazione delle alleanze di centrosinistra e impegni di governo che si sono spinti fino alla “bicamerale” per una trasformazione profonda della Repubblica, puntando quasi sempre ad una riduzione dei margini di azione del Parlamento a tutto vantaggio di una espansione delle prerogative del governo.
Tutto si tiene perfettemante. La mutazione genetica della rappresentanza elettorale, avvenuta col cambio della legge elettorale proporzionale, l’adozione del “Mattarellum” e l’instaurazione della dittatura del “meno peggio” nel costringere gli elettori a schierarsi pro o contro qualcuno prescindendo da quelle “ideologie” che venivano proclamate morte e quasi anche sepolte, è la cornice che ha contribuito alla tenuta – più o meno salda – di un costante cambiamento non solo istituzionale ma realmente antropologico e sociologico del Paese.
Il liberismo economico da un lato, la ricerca di controriforme istituzionali dall’altro, si sono saldati e hanno archiviato la stagione del solidarismo sociale, del mutualismo e della collaborazione: un intellettuale collettivo è scomparso sotto il peso del crollo dei malequilibri della Guerra fredda e ogni pretesto è stato colto per fare della nostra Repubblica democratica e parlamentare un qualcosa che necessitava di una rivoluzione conservatrice.
Mentre, nel corso di trent’anni, la sinistra si è consumata su sé stessa e il centrosinistra l’ha sacrificata sull’altare dei nuovi princìpi da seguire (governabilità, stabilità economica, interclassismo), la destra, pur con tutte le contraddizioni che ha vissuto nelle lotte di potere che ha sostenuto internamente a sé stessa e che ha fatto vivere al Paese tutt’altro che di riflesso, ha beneficiato della debolezza ormai endemica di un mondo progressista in disfacimento.
Quello che rimane del “paese nel paese” è una rete di corpi intermedi che sono a guardia di valori e di interessi che una maggioranza relativa degli italiani non riconosce come prioritari: democrazia, giustizia sociale, beni pubblici e comuni, sono stati surclassati da temi importanti proposti dalle destre come grandi problemi di natura securitaria e di stabilità essenzialmente economica.
E tutto questo è potuto accadere perché la cosiddetta “sinistra“, pelosamente identificata dai grandi mezzi di comunicazione di massa nell’ibridatura politica dell’anomalia tutta italiana rappresentata dal PD e dai suoi alleati, ha giovato del riconoscimento anche indiretto che le veniva attribuito proprio dalle destre: le accuse di avere a che fare con gli eredi del comunismo sovietico si sono scontrate con delle sempre più flebili critiche sul passato fascista di tutta una serie di personaggi che oggi stanno per ricoprire le più alte cariche dello Stato.
Il centrosinistra ha cercato in Italia un riconoscimento per sé stesso anche tramite una eccessiva tolleranza verso quel mondo politico che è passato dall’essere “neofascista” all’evoluzione, ormai da tutti accettata pedissequamente, che lo definisce “postfascista“. Proprio nel corso dell’ultima crisi di governo e delle elezioni del 25 settembre, in quei mesi apparsi come brevissimi, l’ultima trasformazione terminologica, l’ultimo mutamento empirico del linguaggio hanno sancito il terreno minimo di credibilità internazionale per una destra estrema che governerà la Repubblica.
Il punto di vista internazionale è stato costruito dalla nostra stampa e dalle televisioni presentando Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni come “postfascisti“.
Poco importava se le differenze tra i comizi di piazza in Italia e le teleconferenze con il partito neofranchista spagnolo Vox si scostavano diametralmente dal volto istituzionali che ci si veniva dando alla bisogna; la nuova cultura di massa del momento era messa in piedi e marciava speditamente per obbedire, sempre e comunque, ad un “interesse nazionale“. Quale? Ma quello di avere un governo anche postfascista piuttosto che lasciare andare a bagno i fondi del PNRR e mettere così in difficoltà più il mondo del profitto e delle imprese rispetto a quello del lavoro e della disperazione sociale.
Gli interrogativi lancinanti, accompagnati da visi smarriti, sorrisi a metà e ricerca di suggestioni autoconsolatorie per “aver fatto comunque tutto il possibile” per scongiurare la vittoria delle destre, non servono a spiegarci l’attualità di oggi e non risolvono nemmeno il rapporto con la storia di ieri.
Non sono più le domande irrisolte a fare dell’Italia il Paese delle destre al governo. Lo sono gli interessi privati riconrsi dai conservatori e dai sovranisti da un lato, quanto la voglia di rappresentarli che le cosiddette “sinistre” hanno voluto interpretare appieno come schema risolutivo di un falso riformismo di struttura.
Le classe popolari, i moderni proletari, i lavoratori, i precari e i disoccupati, nonché i pensionati e gli studenti sempre più di lungo corso, non hanno avuto dalle politiche del centrosinistra nessun sostegno che li inducesse a ritenere che il PD facesse i loro interessi piuttosto che quelli delle imprese e dei grandi finanzieri.
Se questa evidenza si è venuta formando in un lungo arco di tempo, ed è probabilmente culminata con la congiuntura sfavorevole tra pandemia, guerra, siccità, caro bollette e governo Draghi, sembra sempre più frutto delle circostanze piuttosto che il prodotto di una seria presa di coscienza collettiva.
Se oggi alla Presidenza del Senato della Repubblica andrà Ignazio La Russa, e poi domani Giorgia Meloni guiderà Palazzo Chigi, la responsabilità non è dell’utopismo dei comunisti, del radicalismo della sinistra di alternativa, ma è tutta, proprio tutta di chi ha detto che avrebbe aiutato la povera gente a campare una volta trovatosi al governo e, invece, ha sempre fatto ogni volta esattamente l’opposto.
I frutti avvelenati di questa mistificazione pluridecennale li raccogliamo oggi. Tutte e tutti noi.
MARCO SFERINI
13 ottobre 2022
Foto di Roberto M.