Dopo lo straordinario successo di M*A*S*H Robert Altman continuò, indipendentemente dai generi cinematografici attraversati, a muovere una forte critica alla società americana.
Nel singolare e suggestivo Brewster McCloud (Anche gli uccelli uccidono, 1970), che segnò l’inizio della carriera di Shelley Duvall (poi indimenticabile in Shining di Kubrick), descrisse l'”impossibilità di essere normale” in una società che ha abolito la capacità di stupirsi e di coltivare i propri sogni. Nel successivo McCabe & Mrs. Miller (I compari), con Warren Beatty, che volle Altman alla regia del film, e Julie Christie, il regista mise in scena un western atipico per demolire il mito americano della “libera iniziativa”. Quindi il cineasta si trasferì in Irlanda per girare Images (1972), pellicola sulla crisi di identità di una donna, interpretata da Susannah York che venne per questo premiata a Cannes, e più in generale della contemporaneità. Proprio durante la sua trasferta in Europa Altman venne contattato dalla United Artists che gli propose di trarre un film dall’ultimo romanzo di Raymond Chandler, nacque così The Long Goodbye ovvero Il lungo addio.
Quando Helga Mary Green, agente letteraria e compagna dello scrittore, lesse l’ultimo manoscritto del suo amato, appunto “The Long Goodbye”, la sua reazione fu semplicemente: “Ma questo non è Marlowe. È una specie di Cristo contemporaneo”. Philip Marlowe era il detective privato nato dalla penna di Chandler in un racconto nel 1934, divenuto sempre più popolare a partire dal romanzo d’esordio dell’autore, il celebre “The Big Sleep” (“Il grande sonno”). Risoluto, laconico, cinico, l’investigatore divenne protagonista di altri romanzi suscitando l’interesse dei lettori e di Hollywood. Partendo dai libri di Chandler vennero realizzati, infatti, buoni film (Una donna nel lago, La moneta insanguinata, L’investigatore Marlowe) e autentici capolavori come Murder, My Sweet (L’ombra del passato) con Dick Powell come protagonista e The Big Sleep (Il grande sonno) diretto da Howard Hawks e interpretato magnificamente da Humphrey Bogart con al fianco una magnetica Lauren Bacall.
Ma quell’ultimo romanzo, “The Long Goodbye” pubblicato per la prima volta nel 1953, era diverso dai precedenti. Rifletteva la stanchezza dell’autore giunto al suo ultimo lavoro (dopo la morte di Chandler uscirono altri romanzi, ma incompleti). Aveva un tono crepuscolare. Hollywood comunque non poteva rimanere fuori, era pur sempre Marlowe. I diritti del libro, dopo alcuni passaggi, vennero definitivamente acquistati dai produttori Jerry Bick (marito di Louise Fletcher, la perfida infermiera premio Oscar di Qualcuno volò sul nido del cuculo) e Elliot Kastner (già produttore di Dove osano le aquile) che affidarono la sceneggiatura a Leigh Brackett, già autrice de Il grande sonno, e individuarono Howard Hawks e Peter Bogdanovich come possibili registi. Ma il primo aveva smesso di dirigere e non volle tornare sui suoi passi, mentre il secondo declinò l’invito suggerendo, tuttavia, il nome dell’autore di M*A*S*H.
Terminato il montaggio di Images, Altman si mise subito al lavoro sulla sceneggiatura curata da Leigh Brackett (grande penna, poi sceneggiatrice de L’Impero colpisce ancora, secondo capitolo della saga di Star Wars) ampliando lo sguardo anche alla raccolta di lettere e appunti “Raymond Chandler Speaking”, saggio in cui emergeva, secondo Altman, il vero Chandler. Il tono crepuscolare, il fascino dell’ultimo episodio, il capitolo finale di un “protagonista-mito” e di un genere, quello dell’Hard boiled, esercitavano sul cineasta più interesse del romanzo stesso.
L’attore protagonista, quello che avrebbe interpretato l’investigatore Philip Marlowe, diveniva ancor più centrale. I produttori pensarono a Robert Mitchum e Lee Marvin, ma per convincere definitivamente Altman, inizialmente scettico, coinvolsero l’amico Elliott Gould (Mitchum interpretò Marlowe in due successivi adattamenti: Marlowe, il poliziotto privato e Marlowe indaga. Mentre nell’ultimo film tratto dai romanzi di Raymond Chandler, Marlowe – Omicidio a Poodle Springs, l’investigatore ebbe il volto di James Caan).
Elliott Gould (Brooklyn, 29 agosto 1938), protagonista di M*A*S*H insieme a Donald Sutherland, non stava attraversando un gran momento. Non lavorava da due anni. I suoi ultimi film avevano avuto scarso successo e si era fatto la nomea di inaffidabile e irascibile (si vociferava di una scazzottata su un set). Per Altman, invece, era l’uomo giusto e garantì di fronte ai produttori che, comunque, sottoposero l’attore a visite mediche e psicologiche. Nel gennaio del 1972 la United Artists annunciò che Altman e Gould avrebbero realizzato il film che il regista presentò come “una satira nella malinconia”.
Il cineasta pensò ad un altro suo amico, Dan Blocker (noto per il telefilm Bonanza), per un ruolo di grande importanza, quello dello scrittore alcolista presente nel romanzo di Chandler. Ma Blocker morì prima dell’inizio delle riprese. Altman, che dedicò comunque il film alla memoria dell’amico scomparso, si mise così alla ricerca di un altro interprete.
Si ricordò di un personaggio atipico nel mondo del cinema, che preferiva lunghi viaggi in barca alla recitazione, sebbene, da Giungla d’asfalto a Johnny Guitar, da Rapina a mano armata a Il dottor Stranamore, era sempre stato in grado di lasciare il segno. In più era comunista, beveva e fumava. Perfetto per il ruolo, pensò probabilmente Altman. Il suo nome era Sterling Hayden.
Nel cast anche Jim Bouton (Newark, 8 marzo 1939 – Great Barrington, 10 luglio 2019), già giocatore di baseball nei New York Yankees, alla sua prima apparizione cinematografica; Mark Rydell (New York, 23 marzo 1928), più regista che attore, aveva diretto, tra gli altri, Steve McQueen e John Wayne; e Henry Gibson, pseudonimo di James Bateman (Germantown, 21 settembre 1935 – Malibù, 14 settembre 2009) che aveva debuttato in The Nutty Professor (Le folli notti del dottor Jerryll, 1963) diretto da Jerry Lewis, per poi divenire un caratterista piuttosto affermato.
Il principale, e pressoché unico, ruolo femminile venne, infine, affidato a Nina Magdelena Møller (Danimarca, 15 luglio 1932), dal 1960 baronessa Nina van Pallandt a seguito del matrimonio col barone olandese Frederik van Pallandt (precedentemente la donna era stata spostata con Hugo Wessel).
Prima ancora di sposarsi i due giovani aveva intrapreso la carriera musicale formando il duo Nina & Frederik. Fecero scalpore, ma il loro repertorio afro-caraibico trovò vasto consenso in Danimarca, Olanda e nel Regno Unito. Registrarono sette album. Seguì perfino una serie TV, ma si sciolsero artisticamente nel 1964. Ebbero tre figli (Floris Nicolas Ali, Kirsa Eleonore Clara, Ana Maria Else), per poi divorziare nel 1975. Triste fine per Frederik van Pallandt che, trasferitosi nelle Filippine, venne coinvolto in un traffico di droga dal Paese asiatico. Morì, insieme alla nuova compagna, a seguito delle ferite riportate in conflitto a fuoco nel 1994.
Sorte diversa per Nina van Pallandt che, dopo essere apparsa in On Her Majesty’s Secret Service (Agente 007 – Al servizio segreto di Sua Maestà, 1969), ottenne, inaspettatamente, una certa visibilità quale amante di Clifford Irving. Lo scrittore nel 1971 aveva pubblicato una falsa biografia di Howard Hughes. Denunciato, confessò il falso e passò diciassette mesi in carcere. L’episodio venne ripreso nel documentario Vérités et mensonges (F come falso, 1973) di Orson Welles e, soprattutto, fu la base del film The Hoax (L’imbroglio, 2006) con Richard Gere nei panni di Clifford Irving e Julie Delpy in quelli della baronessa van Pallandt (che lavorò con lo stesso Gere in American Gigolo).
La fotografia fu curata dal regista insieme a Vilmos Zsigmond (Seghedino, 16 giugno 1930 – Big Sur, 1 gennaio 2016). Ungherese di nascita, statunitense di adozione, il cineasta fu probabilmente il più grande direttore della fotografia della New Hollywood. Debuttò con Deliverance (Un tranquillo week-end di paura, 1972) per poi, dopo I compari e Il lungo addio al fianco di Altman, affermarsi con Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, 1977) di Steven Spielberg, The Deer Hunter (Il cacciatore, 1978), per il quale vinse l’Oscar, e Heaven’s Gate (I cancelli del cielo, 1980) diretti da Michael Cimino e Blow Out (1981) di Brian De Palma. Per The Long Goodbye Altman e Zsigmond caratterizzarono quel clima crepuscolare, usando colori deboli e un tono poco brillante. Per farlo di due scelsero un negativo parzialmente esposto e filmarono attraverso finestre e filtri. Il risultato fu stupefacente.
Avevano già lavorato con Altman anche il montatore Lou Lombardo (Missouri, 15 febbraio 1932 – Woodland Hills, 8 maggio 2002) che prima di curare il montaggio di McCabe & Mrs. Miller, aveva realizzato quello de The Wild Bunch (Il mucchio selvaggio, 1969) di Sam Peckinpah; e il compositore John Williams (Floral Park, 8 febbraio 1932) che dopo aver composto le musiche di Fiddler on the Roof (Il violinista sul tetto, 1971) per le quali si aggiudicò l’Oscar, aveva lavorato con Altman in Images per poi raggiungere fama planetaria con la musica dei più famosi titoli di testa della storia, quelli di Star Wars. Per il film di Altman, Williams compose il tema “The Long Goodbye” riproposto in più versione per accompagnare le diverse fasi della pellicola. Le parole, in questa straordinaria collaborazione, furono scritte da John Herndon “Johnny” Mercer (Savannah, 18 novembre 1909 – Los Angeles, 25 giugno 1976) paroliere, compositore e cantante statunitense, quattro volte premio Oscar per la Miglior canzone, inclusa l’indimenticabile “Moon River” cantata da Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany. Tornando a The Long Goodbye (Il lungo addio), il film di Altman uscì nelle sale il 7 marzo 1973.
L’investigatore Philip Marlowe (Elliott Gould), svegliato nel cuore della notte dal suo gatto affamato, esce in cerca di cibo per l’animale. Una volta tornato riceve l’inaspettata visita dell’amico Terry Lennox (Jim Bouton), che, tumefatto, si dice sconvolto per una lite con la moglie Sylvia e gli chiede di accompagnarlo da Los Angeles a Tijuana in Messico. Marlowe accetta. Al ritorno nel suo appartamento, due poliziotti lo informano dell’omicidio di Sylvia Lennox e decidono di portarlo in commissariato. Marlowe, uscendo per seguire gli agenti, chiede a un gruppo di ragazze hippy sempre discinte che gli abitano di fronte (tra loro Rutanya Alda e Tammy Shaw) se hanno visto per caso il suo gatto. Dopo l’interrogatorio, Marlowe è arrestato. Viene liberato solo alla notizia del suicidio di Lennox in Messico. Scosso e poco convinto della morte del suo amico, il detective riceve da Eileen Wade (Nina van Pallandt) l’incarico di ritrovare il marito, lo scrittore Roger Wade (Sterling Hayden). L’artista, in crisi creativa, è presto rintracciato nella clinica del dottor Verringer (Henry Gibson) dove è solito recarsi per disintossicarsi dall’alcol. Marlowe scopre così che i Wades conoscevano i Lennox, ed è sempre poco convinto della sorte dell’amico, nonostante una lettera in cui Terry si scusa e gli dice addio. Ma nella vicenda è coinvolto anche il gangster Marty Augustin (Mark Rydell) e la sua banda che fa irruzione nella casa dell’investigatore in cerca dell’ingente somma di denaro di cui Lennox gli è debitore e che solo il suo amico Marlowe può dargli. Il protagonista è sempre meno convinto e raggiunge il Messico. I funzionari di Tijuana, tuttavia, gli confermano la morte dell’amico. Tornato a Los Angeles l’investigatore partecipa ad una festa a casa dei Wades, interrotta dall’arrivo del Dr.Verringer che chiede il pagamento per la disintossicazione. La notte stessa Roger Wade si fa inghiottire dalle onde sotto lo sguardo della moglie e di Marlowe che provano, invano, a fermarlo. La donna confessa così al detective che tra il marito e Sylvia Lennox c’era una intensa relazione e che, probabilmente, era stato proprio lo scrittore ad ucciderla, creandosi l’alibi della clinica. Marlowe racconta tutto alla polizia e, dopo un nuovo scontro con Augustin, cerca di parlare con Eileen Wade che vede ferma ad un semaforo. La insegue a piedi, ma viene investito. Si risveglia in ospedale vicino ad un paziente completamente fasciato che gli regala un’armonica e, facendo credere ad un’infermiera che Marlove è il paziente “mummia”, capisce. Dopo aver cercato nuovamente invano la signora Wade e aver chiesto alle vicine se avevano visto il gatto, il detective torna in Messico, scopre che il suicidio di Lennox è una messa in scena e paga i funzionari locali per trovare il vecchio amico a Tijuana. Lo raggiunge. Il detective sa che è stato Lennox ad uccidere la moglie, che gli confessa ogni aspetto del piano organizzato con la sua amante Eileen Wade. Usato, tradito e insultato, Marlowe spara mortalmente a Lennox e si allontana in una via polverosa suonando l’armonica, incurante che Eileen Wade lo incroci per recarsi dal suo complice.
Magnifico e ipnotico film a partire dalla tagline “Nothing says goodbye like a bullet” (“Nulla dice addio come una pallottola”). “Splendido canto funebre di un personaggio e di un genere, privo di suspense in senso tradizionale, ma percorso da una sottile inquietudine che via via si trasforma in autentica tensione” (Mereghetti) che, tra vetri, specchi e finestre, racconta la dissociazione psichica ed esistenziale del protagonista, uno Elliott Gould scarno, essenziale, ironico quanto basta, e la sua distanza dal mondo che lo circonda. Il suo Marlowe non è scettico e tagliente come quello di Bogart, ma un irridente bonaccione che accompagna il film con la battuta “È ok per me”, mentre attorno a lui succede di tutto. Un “antieroe superato dagli avvenimenti che non riesce mai a controllare”, secondo le parole del critico marocchino Robert Benayoun, che si riscatta nella scena finale con “una scelta morale che è coerentissima risposa all’involuzione della società”.
Altman, pur mantenendo i nuclei narrativi, rilesse il romanzo di Chandler. Molte furono, infatti, le differenze col racconto, a partire dal finale. Nel libro ad uccidere Sylvia e Roger è la stessa Eileen Wade, mentre Terry, innocente, per sfuggire alla cattura ricorre alla plastica facciale. Cambiò anche il ruolo del gangster, nel libro Menendez, che aiuta Lennox a fuggire in Messico. Fu, invece, un’invenzione di Altman il gatto che apre il film in cerca di cibo, scappa (il regista dirà: “il vero mistero è dove sia finito il gatto”) e indirettamente lo chiude. A fine film, infatti, Terry Lennox insulta Marlowe dicendogli “You are a born loser!” (“Sei un perdente nato!”) e il detective, prima di sparare, risponde “I even lost my cat” (“Ho persino perso il mio gatto”), che nel doppiaggio italiano diventa un banale “Non questa volta”. Una scelta che si può spiegare solo con un’altra stranezza de Il lungo addio nostro nel nostro Paese. In Italia, infatti, fino al rilascio del DVD, circolava una versione del film leggermente accorciata, ora ripristinata con l’inserimento delle scene mancanti doppiate con nuove voci. E cosa c’entra il gatto? Semplice, vennero tagliate le scene in cui Marlowe chiede alle vicine, “colpevolmente” a seno nudo, se avevano visto il gatto.
Il regista ridisegnò Marlowe e anche il genere noir, deridendo Hollywood e i suoi stereotipi, come sottolineato beffardamente dalla canzone “Hooray for Hollywood”, scritta nel 1937 da Johnny Mercer, che apre e chiude il film. L’intento del regista, tuttavia, non fu quello di rinnovare il cinema americano, ma di destrutturarlo dall’interno con la ricerca e la sperimentazione, come già aveva fatto sia con M*A*S*H sia con McCabe and Mrs. Miller. Forse anche per questo alla sua uscita The Long Goodbye fu tutt’altro che un successo e venne rivalutato, da critica e pubblico, solo negli anni successivi, fino ad essere inserito dalla rivista Empire nella lista dei 500 migliori film della storia.
Oltre a Gould, fu immensa l’interpretazione di Sterling Hayden, indimenticabile il suo Roger Wade, tormentato, alcolizzato, “hemingwayano”, ma da citare sono anche due altri attori. Ne Il lungo addio, infatti, compaiono sia David Carradine, nella parte del compagno di cella di Marlowe, sia un ragazzone palestrato di nome Arnold Strong. L’uomo era stato presentato al regista da David Arkin, anch’egli nel cast, e divenne insieme allo stesso Arkin, membro della banda del gangster Augustine. Benché non accreditato quell’Arnold Strong, alla sua seconda apparizione cinematografica, divenne in breve tempo molto conosciuto. Il suo nome era ed è Arnold Schwarzenegger.
The Long Goodbye, a quasi cinquantanni dalla sua uscita, resta uno dei capolavori noir della storia del cinema, capace di ispirare anche uno dei personaggi dei fumetti più conosciuti e amati, quel Dylan Dog che, per ammissione del suo ideatore Tiziano Scalvi, deve molto a Marlowe in generale e quel Marlowe in particolare. Da ricordare l’amatissimo albo numero 74, intitolato, appunto, “Il lungo addio”.
Tornando al cinema, The Long Goodbye è stato talmente importante e innovativo che gli autori e i registi che si sono cimentati in seguito col genere noir o si sono rifatti ai classici degli anni ’30 e ’40, o hanno provato a raccogliere l’eredità di Altman arricchendo, in un ibrido ormai comune, gli aspetti tipici del filone, il gangster, la donna fatale, il personaggio ambiguo e misterioso, con una critica al sistema, che sia quello hollywoodiano o quello economico.
redazionale
Bibliografia
“Robert Altman” di Flavio De Bernardinis – Castoro
“Storia del cinema” di Gianni Rondolino – UTET
“Il Mereghetti. Dizionario dei film 2019” di Paolo Mereghetti – Baldini & Castoldi
Immagini tratte da: immagine in evidenza, foto 4 Screenshot del film M*A*S*H, foto 1, 3, 5 da pinterest.com, da foto 2 Screenshot del film The Delinquents, foto 6 Screenshot del film Comma 22