Nell’attuale fase della globalizzazione, segnata da un gramsciano interregno nel quale il vecchio è morto e il nuovo non è ancora sorto, si trovano in campo almeno tre progetti politici transnazionali, nessuno dei quali si colloca a sinistra: il fondamentalismo di matrice religiosa, il neo-populismo e la neo-tecnocrazia. Di questi tre, solo l’ultimo ha l’ambizione di rilanciare il capitalismo neo-liberale attraverso un’ulteriore sterilizzazione della democrazia politica e sociale e un rilancio del ruolo dello specialismo e della tecnica come strumenti di governo.
Le riflessioni sviluppate negli ultimi anni da politologi e sociologi come Parag Khanna che portano, non a caso, il modello cinese o di Singapore come esempi di sistemi politico-economici virtuosi, opposti all’inefficiente democrazia rappresentativa occidentale – che genera «mostri» come Trump – ne sono una chiara prova. Per contro, il neo-populismo denuncia i guasti dell’élite tecnocratica globale e, appoggiando spesso movimenti e correnti di opinione anti-intellettualisti e contrari alla scienza, si propone di sanarne i guasti attraverso il sicuritarismo, il sovranismo, la xenofobia e il razzismo. Il tutto cercando di costruire un’alleanza tra le masse impoverite dalla crisi e il capitalismo nazionale in cerca di prebende e protezioni varie. Soprattutto verso l’assalto dei capitali asiatici. In generale, in questo scenario è il rapporto tra saperi esperti (medicina, sociologia, economia ecc.) e democrazia a entrare in crisi come se si trattasse di due dimensioni alternative e tra loro inconciliabili.
Il libro di Benedetto Saraceno Psicopolitica. Città, salute, migrazioni (DeriveApprodi, pp. 139, euro 14) è un pamphlet che cerca di smontare questa falsa dicotomia dall’«interno». Vale a dire senza sminuire l’importanza del sapere scientifico specialistico ma, anzi, ponendolo in relazione con la sfida del rilancio della democrazia.
Per Saraceno, psichiatra ed ex direttore del Dipartimento di salute mentale dell’Oms, i saperi che hanno per soggetto\oggetto gli esseri umani – e di cui la psichiatria rappresenta uno degli esempi paradigmatici – devono, innanzitutto, evitare le semplificazioni ed accettare la sfida della complessità. Il che vuol dire trovare la connessione tra i problemi e le sofferenze individuali, da un lato, e le loro radici sociali dall’altro. Ma anche accettare percorsi condivisi di discussione critica e di partecipazione di tutti i soggetti coinvolti (esperti e non-esperti, utenti, società civile) sia nel percorso conoscitivo sia in quello dell’intervento vero e proprio. In secondo luogo, occorre ricalibrare il terreno dell’incontro tra scienza e democrazia: dalla dimensione lontana e astratta del globale si deve ritornare al terreno iper-concreto della città. Luogo per eccellenza del dispiegarsi delle contraddizioni e dei conflitti e, allo stesso tempo, dimensione dove è possibile sviluppare sul piano pratico e dei bisogni reali processi di trasformazione della realtà. Un nuovo «diritto alla città», citando Lefebvre che acquista sempre più importanza in un’epoca nella quale la grande maggioranza della popolazione mondiale tende ad abitare in un ambiente metropolitano.
In questo scenario, la salute mentale come le migrazioni sono degli ambiti problematici complessi, delle faglie fondamentali, nelle quali diventa determinante costruire un rinnovato rapporto tra democrazia e scienza; proprio perché è al loro interno che il neo-liberalismo prima e il neo-populismo dopo hanno costruito i più potenti meccanismi contemporanei di stigmatizzazione ed esclusione. Certamente, tutto questo non poggia sulla mancanza totale di una «tradizione»: dall’esperienza di don Lorenzo Milani all’anti-psichiatria di Basaglia, il modello di riferimento, la sfida, è sempre quella di immaginare e costruire saperi e pratiche non autoritarie; non dilettantistiche; non asservite alle logiche del dominio; ma in grado di favorire, con un vasto lavoro critico e in rete, i processi di emancipazione.
Per Saraceno occorre dunque costruire e formare un esperto non miope. In grado di fronteggiare la complessità e di contestualizzarla essendo in grado, allo stesso tempo, di fare sempre ricorso al suo sapere specialistico per accompagnare e migliorare i processi democratici. Un rilancio su basi post-partitiche e post-verticistiche di quella stessa idea gramsciana dell’intellettuale, del dirigente, come specialista dotato anche di un sapere e una visione generale in grado di farlo efficacemente contribuire all’opera di trasformazione emancipativa della società. Ed è esattamente questo rinnovato rapporto tra democrazia e specialismo, oltre le semplificazioni del neo-populismo e le strettoie strumentali della neo-tecnocrazia, quello a partire dal quale un nuovo e più efficace progetto politico della sinistra può oggi rinascere.
FRANCESCO ANTONELLI
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