Ai blocchi di partenza sono ben 44 i candidati aspiranti a diventare presidente ucraino per i prossimi 5 anni. In realtà la vera corsa si riduce a 3-4 candidati visto che nessuno dei concorrenti, di cui i primi 2 dovranno vedersela al ballottaggio, sembra che potrà ottenere il 50% + 1 dei voti il prossimo 31 marzo.
Il presidente uscente Petr Poroshenko, rischia di non partecipare al ballottaggio. L’ultimo sondaggio lo dà al terzo posto con il 14,8% dei consensi e la sua sarà una campagna tutta in salita. Giunto al potere dopo la Maidan di cui era riuscito a farsi accreditare come uno dei leader più moderati, aveva promesso una rapida ripresa economica e la reintegrazione delle provincie ribelli del Donbass nei confini del paese. Ma né una sanguinosa guerra civile né la firma degli accordi di Minsk gli hanno fatto raggiungere quest’ultimo obiettivo.
Per quanto riguarda invece la situazione sociale, lo stato di prostrazione del paese è sotto gli occhi di tutti: malgrado gli oltre 10 miliardi di dollari di prestiti piovuti con generosità da Fmi e Ue nei 5 anni della sua amministrazione il reddito medio della popolazione è di 180 dollari al mese, il salario minimo è fissato in 70 dollari e lo scorso ottobre in molte città ci sono stati blocchi stradali e barricate contro l’aumento dei prezzi del riscaldamento.
Al secondo posto nei sondaggi con il 18,5% c’è Yulia Timoshenko. Non si tratta certo di una new entry della politica ucraina: già «regina del gas», poi capo del governo dopo la «rivoluzione arancione» del 2004, finì in prigione per corruzione durante l’amministrazione Yanukovich incastrata su base di prove probabilmente fabbricate. Con il suo partito Patria è diventata il principale catalizzatore di una opposizione principalmente parlamentare. È per riaprire il dialogo sulla Russia sulla questione annosa delle pipelines che transitano sul suolo ucraino, ma per il resto ha sostenuto con enfasi, ancora più di Poroshenko, la necessità di aderire rapidamente alla Nato e di entrare a pieno titolo nella Ue. «Abbiamo bisogno non solo che ci vengano restituiti i territori occupati della Crimea e del Donbass, ma anche di portare la Russia davanti a un tribunale internazionale, in quanto Stato occupante, perché paghi per i danni che il nostro paese ha subito» ha affermato l’ex pasionaria della rivoluzione arancione nel comizio di apertura della sua campagna il 9 febbraio scorso.
La vera novità di questa campagna elettorale è stato il venire alla ribalta dell’attore comico televisivo Volodomyr Zelensky, che oggi guida i sondaggi con il 21,7% delle preferenze.
Ha fondato un partito all’uopo per la sua candidatura denominato come la sua trasmissione televisiva di satira politica, Servire il Popolo. Ma se già dal nome risulta evidente il carattere populista della formazione che si caratterizza per una forte impronta anticasta e anticorruzione, sono state le sue proposte su come risolvere le crisi del Donbass e della Crimea a creare molto interesse nell’opinione pubblica e a spiazzare i suoi principali concorrenti.
Colui che a buon diritto può essere definito il «Beppe Grillo di Kiev» ha dichiarato che sulla questione dei territori ucraini occupati da Mosca «si tratta di negoziare direttamente con Putin visto che i dirigenti delle Repubbliche Popolari non sono altro che dei fantocci». Secondo quanto ha affermato Strana egli avrebbe già preso dei contatti preliminari con l’ambasciata russa e ciò gli ha attirato le accuse dell’estrema destra fascista di essere «al soldo di Mosca».
L’appeal di Zelensky malgrado ciò è ancora più forte nel sud del paese che a est, segno di uno spostamento degli umori degli ucraini verso la ricerca di una soluzione negoziata con la Russia. Se ne è accorto anche Poroshenko che ha rimodulato la sua posizione verso l’ingombrante vicino slavo: «Abbiamo bisogno di una pace fredda con la Russia. Fredda, ma pace» ha detto nel suo discorso di presentazione, mettendo in soffitta qualsiasi ipotesi di revanche militare.
Ovviamente il Cremlino non vede per nulla male l’ascesa di Zelensky anche perché gli darebbe la possibilità di tornare a giocare un ruolo nella politica interna ucraina dopo il disastroso sostegno incondizionato a Yanukovich nel 2014 che gli alienò molte delle simpatie che pur aveva allora nel paese.
Restano marginali dal punto di vista elettorale le organizzazioni di estrema destra e neofasciste. Solo il candidato di Svoboda Ruslan Koshulinky raggiunge l’1% e ciò rende giustizia di ogni rozza caratterizzazione del regime ucraino come junta golpista, anche perché nel paese continuano a sussistere, in mezzo a mille difficoltà, movimenti dei diritti civili e sindacali assai dinamici.
Il pericolo dell’estrema destra in Ucraina resta legato ai suoi legami nell’esercito e nella polizia che hanno permesso nello scorso anno, come ha denunciato la Freedom House americana, «50 attacchi della destra contro movimenti dei diritti civili, lgbt e antifascisti, 8 pogrom antirom e 2 contro la minoranza caucasica». Un crescendo di razzismo e squadrismo che è costato l’ulteriore abbassamento del rating del tasso di democrazia del paese da parte di Freedom House.
Assente dalle elezioni purtroppo la sinistra. Il governo ha persino impedito la presentazione del candidato comunista Petr Simonenko, applicando rigidamente la vigente mostruosa legge sulla «decomunistizzazione», in quanto Simonenko intendeva usare nomi e simboli legati al passato sovietico.
YURII COLOMBO
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