Il grido disperato del liberismo: Draghi resti al governo!

Ci vorrebbe davvero la forza dei titani per riuscire in una operazione di messa in sicurezza dell’attuale maggioranza “di unità nazionale“, così eterogenea e plurivalente da rischiare di deragliare...

Ci vorrebbe davvero la forza dei titani per riuscire in una operazione di messa in sicurezza dell’attuale maggioranza “di unità nazionale“, così eterogenea e plurivalente da rischiare di deragliare ad ogni anche timido accenno di curvatura dei rapporti intraistituzionali nel normale svolgimento della dialettica governo e Parlamento, e al contempo garantire a Mario Draghi una via privilegiata verso il Colle più alto della Repubblica.

Financial Times e grande borghesia imprenditoriale sono al lavoro per scongiurare l’ipotesi del trasferimento da Palazzo Chigi al Quirinale: dalle pagine dei grandi quotidiani italiani, economisti e specialisti dell’alta finanza mandano messaggi – in forma di editoriali – al Presidente del Consiglio.

Lo scongiurano di continuare a gestire le sorti del Paese con questa maggioranza che, senza lui, verrebbe oggettivamente meno: il collante superiore, il punto di convergenza e la mediazione massima cui nessun partito osa sottrarsi è e rimane l’esperienza, la capacità, la duttilità nel destreggiarsi proprio tra le sfide più importanti per un capitalismo liberista in difficoltà, ma anche con grandi opportunità davanti a sé, proprio a causa e grazie alla pandemia.

La partita del Colle è un rebus che si scioglierà soltanto a pochi giorni dall’inizio delle votazioni in Parlamento, ma, comunque vada, il 2022 si preannuncia come l’anno dell’attuazione delle riforme strutturali e della gestione complessiva dei duecento miliardi concessi dall’Europa per la rimessa in sesto di una Italia dove le imprese cercano più aiuti economici e defiscalizzazioni possibili, senza che si aumenti il potere di acquisto dei salari e delle pensioni e, anzi, peggiorando le prospettive di ritiro dal lavoro proprio per quelle generazioni che fanno oggi il loro ingresso nel mondo produttivo.

I segnali di una regressione in questo senso vi sono tutti e impongono una considerazione severa sulla gestione di una fase di squilibri sociali che si acuiranno con il risolversi progressivo dell’emergenza da Covid-19 e il ristabilimento dei livelli occupazionali e pensionistici entro parametri che rispondono ai reclami di Francoforte e Bruxelles: nessuna espansione di alcun stato-sociale, ma interventi “pragmatici” e repentini che faranno salire l’età pensionabile a 71 anni, mentre, nel frattempo, persino la proclamazione dello sciopero generale da parte di CGIL e UIL viene sprezzantemente definita “irresponsabile“.

La pandemia finisce col giustificare qualunque accelerazione liberista contro il mondo del lavoro: il primo a fare le spese della tutela dei privilegi padronali e degli investimenti fatti dagli imprenditori grazie alle sovvenzioni pubbliche.

Effettivamente solo Mario Draghi, per quella autorevolezza che lo pone a livello internazionale su un piano di ineguagliabilità quasi assoluta, di deferenza esagerata ma necessaria per farne lo statista moderno (e antico al tempo stesso) di cui ha bisogno l’alta borghesia italiana (e l’alta finanza europea), risponde ai requisiti di garante dell’attuale stato politico di una Italia che affronta l’emergenza sanitaria con qualche successo, ma che fa pagare questo ed altri prezzi ad una distribuzione delle risorse inegualissima, senza nemmeno mostrare qualche intervento legislativo del tutto palliativo per arginare l’impatto della retrocessione antisociale cui si va incontro senza investire i miliardi del PNRR in settori strategici per la salvaguardia delle classi meno abbienti.

Definire “eversivo” lo sciopero generale, unitamente alla già citata accusa di irresponsabilità per Landini e Bombardieri, è solo l’ultimo dei tentativi di screditare un’azione sindacale che contrasta una manovra di bilancio iniqua, dove non si fa cenno a nessuna progressività del prelievo fiscale, dove non si osa nemmeno imporre un contributo da parte di chi ha un reddito maggiore di 75.000 euro annui per alleviare l’insostenibile pensantezza dell’essere delle bollette che, a loro volta, sono ingigantite dagli effetti globali del costo delle materie prime.

Solo SuperMario può gestire la partita della compromissione storico-politico-economica del PNRR e ridurre a mitissimi consigli le già moderate e acquiescenti forze del nuovo centrosinistra a trazione PD e Cinquestelle, trattenendo le richieste di superprotezioni dei privilegi di classe naturalmente avanzate da Italia Viva, Forza Italia e Lega. Il centro fa sempre la sua indecorosa parte di pendolo oscillante a seconda degli opportunismi del caso: ora verso sinistra e ora verso destra. Draghi ne rallenta il dondolio, tacitamente, senza clamori. Alla borghesia imprenditoriale piace lo stile, piace la fermezza e piace l’assoluta dedizione draghiana ai disvalori liberisti.

Non c’è nessun dubbio che, qualunque contrasto possa crearsi nella maggioranza di unità nazionale, Draghi sarà in grado di trovare quel momento e quel punto di convergenza nel nome di un finto interesse nazionale che coincide sempre e comunque con l’interesse esclusivo delle imprese.

La partita del Colle, dunque, si inserisce in questa difficile partita a scacchi: tatticismi e strategie, presunzioni politiche e pretese economiche si fronteggiano, stringono alleanze e si disfano a seconda delle messo degli avversari e delle quotazioni di borsa. Non mancano le influenze internazionali: la crisi tra Ucraina e Russia rischia di far esplodere la linea di demarcazione geopolitica tra Occidente europeo e Russia putiniana alleata della Cina in funzione antistatunitense. L’allargamento della NATO ad Est è un dilemma che sembra non potersi risolvere se non attraverso l’uso della forza da parte russa e l’utilizzo delle “sanzioni mai viste” da parte di Biden.

Ma, per fortuna, i problemi di casa nostra sono ancora molto provinciali: le beghe politiche si susseguono mentre i sondaggi di Draghi sui numeri che avrebbe per salire al Colle sono ancora troppo incerti e la forbice tra minimo e massimo dei voti parlamentari è larga al punto tale da non permettere all’ex capo della BCE di avere la sicurezza che il suo prestigio sia sostenuto da una pressoché quasi totale unanimità di consensi.

Non basta l’elezione con una maggioranza relativa. Serve quella qualificata per avere una investitura tale e quale quella avuta per guidare il governo. Draghi ha, prima di tutto, bisogno che la sua maggioranza lo sostenga appieno e che, magari, a questa si unisca, per quel senso di responsabilità che diventa condivisione di un interesse tutto italiano a cui non ci si può opporre, pure l’opposizione.

Un plebiscito parlamentare sarebbe forse l’unica leva che potrebbe convincere Draghi a foderarsi le orecchie nei confronti dei richiami e delle suppliche di commentatori, economisti e imprenditori affinché resti a Palazzo Chigi. Le scadenze prossime, prima fra tutte quella della mobilitazione per lo sciopero generale, possono indirettamente infrangere i nuovi sogni di gloria di una carriera internazionale, veramente globale, tanto quanto la globalizzazione liberista stessa.

Una cosa sembra però abbastanza certa: mai come oggi, l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica condizionerà la tenuta del governo; sia che Draghi decida di accettare una investitura parlamentare per il Quirinale, sia che la declini.

Chi prospetta fin da ora il primo scenario, deve preparare il piano B, la successione alla presidenza del Consiglio, l’evitamento del voto nel 2022 e il traghettamento alla scadenza naturale della legislatura nel 2023. Solo così padroni, finanzieri e grandi organizzazioni transnazionali a guardia della stabilità del capitale saranno sicuri che l’Europa, dopo l’addio di Angela Merkel al cancellierato tedesco, non sarà turbata da un fronte italiano che è e rimane la porta di accesso di tante economie e di tante migrazioni nel Vecchio Continente.

Che tutto questo dipenda da un solo uomo è tanto inquietante politicamente quanto pericoloso istituzionalmente e non meno anche sul terreno economico e sociale. I no vax farebbero bene a temere la riorganizzazione capitalistica del secondo decennio del nuovo secolo piuttosto che temere che nei vaccini vi siano tecnologie di controllo della temperatura umana, microchip o feti abortiti e grandi complotti per il reset della popolazione mondiale.

Ecco come l’enorme distrazione di massa delle fantasie giocate e rimbalzate dai social alle piazze impedisce di accorgersi, anche vagamente, di quanto ci sta accadendo e del prezzo che pagheremo per aver rincorso questi favoleggiamenti seducenti e abbindolanti.

MARCO SFERINI

9 dicembre 2021

foto: screenshot

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