Il Grande Mistero della conoscibilità dell’essere

L’inconoscibilità può determinare quella spinta oltre il dubbio che, in un certo qual modo, garantisca un progresso sempre più determinato della conoscenza stessa attraverso la formulazione di nuove ipotesi,...
Parmenide ne "La scuola di Atene" di Raffaello Sanzio (1509 - 1511)

L’inconoscibilità può determinare quella spinta oltre il dubbio che, in un certo qual modo, garantisca un progresso sempre più determinato della conoscenza stessa attraverso la formulazione di nuove ipotesi, teorie e anche mediante la sperimentazione scientifica?

In pratica, la domanda è: ciò che non conosciamo può essere soltanto un fatto e un dato acquisito davanti a cui rassegnarsi, oppure può essere il primo stimolo per una progressività cognitiva tanto dei nostri comportamenti nei confronti dell’esistente quanto di ciò che ancora non sappiamo e che, almeno in apparenza, ci appare al di fuori della nostra portata?

La risposta che mi sento di dare è: sì. Anche l’inconoscibile può, proprio per la sua caratteristica di impenetrabilità hic et nunc, essere forse il punto di origine della conoscibilità, attraverso il pungolo del mistero. Di un universo che ci si mostra nella sua unità e, allo stesso tempo, nella sua eterogenea, molteplice e altrettanto misteriosa composizione e scomposizione materiale.

Così come del nostro cervello sappiamo molto e ben poco al tempo stesso, altrettanto dell’Universo sappiamo molto, rispetto a pochi secoli or sono, e pochissimo.

Gli scienziati convengono sul fatto che non solo conosciamo appena il 4/5% dell’universo osservabile con i più sofisticati mezzi a disposizione, ma che di questa minuscola parte di qualcosa che potrebbe essere infinita, infinitamente percorribile o invece finita, di ciò che c’è nel suo “interno“, noi possiamo oggi studiare una piccolissima percentuale.

La cosiddetta “materia oscura“, per l’appunto, ci è inconoscibile eppure è proprio da questa ombra sull’esistente che parte la ricerca astrofisica, cosmologica, scientifica in senso lato. Dall’opposto di ciò che vorremmo sapere facciamo originare quello cui vogliamo arrivare.

E’ un procedimento dialettico anche questo che non ha nessuna presunzione di fare a pugni con la cara, vecchia, adorata ed odiata ontologia: da Parmenide fino ad Heidegger. Quando frequentavamo i banchi della scuola superiore, ci insegnavano la celebre sentenza: «L’Essere è e non può in alcun modo non essere. Il non essere non è e non può in alcun modo essere».

Per millenni i detrattori del pensiero filosofico hanno adoperato questo frammento del poema parmenideo “Sulla natura” per mistificare la missione della speculazione, dell’indagine su un senso dell’esistenza a cui non è mai data una soluzione. Per il semplice fatto che l’inconoscibile è inavvicinabile fino a quel punto. Il punto di arrivo e di soluzione dell’enigma del tutto.

E qui, ma anche altrove, sta uno dei principali argomenti sul significato del messaggio di Parmenide.

Quell'”Essere” non è tanto l'”esser-ci” heideggeriano, che sarà un contorcimento ulteriore di una involuzione ontologica tutta moderna, protesa a sottolineare il carattere “esistenzialistico” dell’indagine conoscitiva sulla presenza dell’umanità nel contesto del mondo, dell’universo, del creato per i credenti, dell’esistente per tutti quanti.

L'”Essere” di Parmenide è la traduzione antica proprio della globalità delle cose, della loro interazione costante, del tutto e del molteplice, del singolare e del plurale, del vivo e del morto dentro un contesto di leggi che agiscono indipendentemente dalla volontà umana.

Noi siamo, dunque, spettatori di una “essenza” che è, ovviamente, “esistenza” ma che, se astratta per un attimo dalla definizione che ne diede Heidegger (cioè di precondizione, di antefatto, di precostituzione dell’essenza stessa di ogni cosa, persona, di ogni forma e sostanza della materia, visto che il filosofo tedesco si riferisce fondamentalmente alla considerazione tutta umana dell’utilizzo del rapporto tra i due concetti) torna al primordiale intendimento parmenideo.

Qualcosa di meccanicistico esiste. Le trasformazioni materiali sono nei fatti. E queste trasformazioni obbediscono, oppure si regolano mediante uno sviluppo che è già nella proprietà delle composizioni materiali che si formano attraverso la biologia, la chimica degli elementi, l’associazione e la dissociazione degli atomi, delle minuscole particelle invisibili ai nostri occhi.

Ciò che ci sembra inconoscibile a prima vista, ossia vedere fin dentro la microbicità degli elementi, la loro minuscolissima rete di fittissimi scambi molecolari, è invece penetrabile dai microscopi, da quella evoluzione scientifica che ci rende davvero degli animali molto speciali. Noi possediamo una intelligenza che ci consente di avere autocoscienza, incoscienza, memoria e oblio, tensione emotiva e spegnimento delle passioni.

Noi, che facciamo parte dell'”Essere” di Parmenide, quindi del tutto che esiste e che si trasforma continuamente, rischiamo, proprio grazie alle potenzialità della nostra mente, di divenire presuntuosi al punto da ritenere di poter risolvere l’enigma del senso dell’esistente senza avere nemmeno raggiunto un grado di conoscibilità sufficiente della materialità, di ciò che c’è e che ci compenetra e circonda.

Parmenide intende tradurre con il termine “Essere” un assoluto, una totalità, una innervatura continuativa del mondo su sé stesso. La logica, in questo modo, diventa parte di un processo di analisi che al tempo del filosofo di Elea non ha ovviamente il carattere che le attribuiamo oggi.

Tuttavia, l’intuizione che emerge dalle considerazioni ontologiche antiche è, partendo proprio da inconoscibile e conoscibile, la capacità di comprendere e di arrivare a quella grande parola che è un po’ il crogiolo di ogni pensatore del passato e pure del presente: la verità. Il Cristianesimo delle origini vi si riferisce nel trittico con la Via e la Vita che sarebbe rappresentato dal “figlio di Dio che si è fatto uomo“.

Se per il mero aspetto religioso, almeno occidentale, il tema dell’indagine può fermarsi qui, alla risposta più semplice, molto dogmatica e quindi per niente stimolante sul piano della sperimentazione del pensiero e della pratica, della ragione di per sé e di quella che fomenta e alimenta il tratto epistemologico della cultura umana, per il laico, per l’agnostico e per l’ateo il discorso è molto diverso.

La verità è una chimera. Per Parmenide ma anche per Gorgia. I sensi ci ingannano sull’acquisizione del vero. Noi riteniamo di conoscere attraverso i sensi; invece, molto più elementarmente, percepiamo e, pertanto, ci fermiamo ad un piano di interpretazione soggettiva, parziale e che, quindi, è lontanissima dall’essere il Vero con la vu maiuscola.

Ci resta nella mente e tra le mani solo una “opinione“: straordinario termine che in greco si traduce in δόξα (doxa) e che non ci lascia null’altro se non la sensazione di essere solo approdati ad un aspetto di quello che in realtà è o potrebbe essere.

Anche in questo caso, l’inconoscibile fa parte del mistero perché non è una equazione risolvibile, non è un problema semplificabile al punto da trovarne la soluzione. Non c’è nessuna soluzione e, come diceva Carmelo Bene «…non c’è un senso, anche se voi volete dare un senso…». Abbiamo fatto cenno a Gorgia, dunque ai sofisti. Qui l’attenzione si sposta sull’umano, sull’essere umano in quanto essere e in quanto specificamente umano.

I tentativi precedenti della ricerca di un principio primo ordinatore del tutto, di un ἀρχή (arché) primordiale, di un principio universale di ogni cosa, di ogni forma, sostanza, visibile, invisibile, pensabile o concretizzabile, erano naufragati nelle differenti teorie interpretative che, forse solo Democrito, aveva provato a scientifizzare senza, chiaramente, avere la possibilità di farlo sperimentalmente.

Con i sofisti il problema della conoscenza diventa relativistico, partendo dall’essere umano che da “misura di tutte le cose” è, inevitabilmente, oggetti di auto-indagine. L’inconoscibile, soprattutto in Gorgia, diventa un absurdum su cui non vale la pena soffermarsi più di tanto.

La grande capacità descrittiva del proprio pensiero, permette a Gorgia di paradossaleggiare con argomentazioni che sembrano inoppugnabili e che, tuttavia, non dimostrano niente tanto quanto le affermazioni ontologiche di Parmenide. Siamo sempre e soltanto entro i confini del possibile che viene immaginato e descritto.

Volendo confutare l'”Essere” nella sua percettibilità, conoscibilità e diffusione della stessa oltre le proprie istintive e immanenti percezioni, Gorgia formula le sue famose tre tesi che, se lette d’impeto e senza la premessa del pensiero parmenideo, possono sembra veramente una follia.

Prima tesi: “Nulla è“. Seconda tesi: “Se anche qualcosa fosse, non sarebbe comprensibile“. Terza tesi: “Se anche fosse comprensibile, sarebbe non comunicabile“. Ciò che dovrebbe o non dovrebbe esistere, essere capibile o trasmissibile ad altri, altro non è se non l'”Essere“, quindi l’esistente nella sua totalità.

Praticamente Gorgia ci dice che non possiamo sapere nulla e che non possiamo dannarci l’animo e la mente nel ricercare una soluzione alla complessità di un universo, di un mondo, di una vita che, in sostanza, sono e saranno la nostra gabbia di insensatezza ridotta, nel microcosmo della nostra quotidianità, ad un senso compiuto nelle singole azioni sociali, civili e morali che ci siamo dati nel corso dei secoli.

La Verità non esiste se non come fenomeno ideale dell’essere umano, al pari di qualunque altro concetto esprimibile.

C’è un che di platonico in tutto ciò e non è affatto strano, perché l’ammirazione per Parmenide da parte di Platone è assodata, certa ed è arrivata fino a noi proprio perché, colui che è considerato l’iniziatore della filosofia occidentale, riteneva innovatrice una speculazione che aveva aperto il campo alla dualità tra mondo reale e mondo delle idee.

Nonostante il contrasto tra parmenidismo e sofismo, il tratto comune sulla messa in discussione tra capacità sensoriale e traduzione della percezione conseguente in oggettività di fatto è sufficiente a tracciare una linea di evoluzione del pensiero filosofico riguardo le problematiche dei futuri sviluppi gnoseologici.

Dunque, l’inconoscibile è un dato di fatto. Ed è anche grazie a questa evidenza che possiamo oggi rivalutare nella sua interezza la Filosofia come coscienza del sapere, come volontà del conoscere, come tensione emotiva verso quell’ispirazione scientifica che ha fatto progredire l’umanità non solo tecnologicamente e medicalmente, ma scavando dentro l’infinitamente piccolo.

Anche là dove il nostro occhio non arriva, esistono delle leggi che dispongono come si attraggono le particelle, come si forma la materia, come si scompone, come nasce, vive e muore. O, per meglio dire, si trasforma. Ma perché tutto questo avvenga resta, ed è destinato a restare, parte del Grande Mistero.

MARCO SFERINI

1° ottobre 2023

foto: screenshot da Wikipedia

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Il portico delle idee

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