L’innamoramento kantiano per la metafisica è più che altro dettato dalla presa in analisi degli elementi critici della ragione pura. Per poter indagare meglio, pur nella consapevolezza della distanza che nutre nei confronti dell’ “abisso senza fondo” rappresentato dalla trascendenza oltre il materiale, oltre il razionale, oltre il criticismo tout court, il filosofo di Königsberg non si esime dall’utilizzare la metafisica. Qui non c’è un riferimento alla pietà cristiana che induce alla credenza: semmai ad un deismo che Kant abbraccerà non per disperazione, ma proprio per evitare scientemente la trappola della dimostrazione dell’esistenza di un dio o di Dio nell’accezione occidentale del termine.
La metafisica, quindi, non è scienza, ma non le si chiude definitivamente una porta in faccia, per escluderla dalla possibilità di essere in parte annoverata in quanto tale, visti i tanti e tali limiti della ragione. Ed è proprio da qui che parte una riflessione su quel terreno dell’esperienza che Johann Friedrich Herbart ha doviziosamente elaborato nel corso della sua carriera di studioso e insegnante. Iniziando proprio dalla cattedra un tempo occupata da Immanuel Kant. Se vogliamo, anche metaforicamente, c’è una prosecuzione critica che, via via, si fa sempre più acerrimamente avversaria dell’idealismo.
La concezione filosofica diviene con Herbart una “elaborazione di concetti dati“: quindi prende spunto, partenza e prosegue sul terreno precipuo dell’esperienza, da cui è impossibile trascendere. Sovente riconosciamo che noi stessi siamo ricchi di contraddizioni: le elenchiamo e proviamo a dare una sorta di soluzione ad alcune di esse; ma capita, altrettanto spesso, di non riuscire a risolvere questi enigmi, pur essendo consapevoli del fatto che la contraddizione, di per sé, non rende invivibile l’esistenza, ma, forse molto più banalmente, ce la complica e ci allontana dal questionare sul senso della vita, sul senso dell’essere, sul significato che se ne potrebbe trarre.
Non che la contraddizione sia una sorta di alibi concesso alla distrazione per evitare, e solo per questo, di incaponirsi su qualcosa di oggettivamente imponderabile. Ma, appare abbastanza evidente, che il ruolo che gioca nel processo di acquisizione della conoscenza non è di certo secondario. Se ci riferiamo ad Hegel, sfondando una porta aperta in questo frangente, la contraddizione è l’anima di una dialettica del mondo che gli regala non solo un senso, ma una ragione suprema dell’essenza del reale e del conoscibile. Nettamente all’opposto la pensa Herbart: ciò che risulta contraddittorio è quanto meno difficile da afferire alla realtà.
Lo stesso pensiero che cade nel terreno scivoloso della contraddizione è un qualcosa di tremendamente soggettivo e che, dunque, non può riferirsi all’oggettività, alla veridicità dei fatti, alla constatazione dell’unicità di un determinato processo vitale, di un’esistenza tanto animata quanto inanimata. Quindi la conoscenza non può essere un prodotto di una sorta di dialettica del pensiero che proviene dalla contraddizione. In quanto irrisolvibile e con un carattere squisitamente “provvisorio“, ciò che si contraddice finisce con il non appartenere al reale. Per lo meno a quello che la nostra sensibilità ci permette di acquisire: la vista osservando, il tatto toccando, l’odorato respirando, le orecchie ascoltando e la bocca tastando i gusti.
Herbart entra in collisione con l’Io fichtiano ben presto, visto che questo è protagonista dell’idealismo. C’è da dire che il fascino intrinseco della filosofia emerge con grande forza là dove si mette a comparazione un concetto e lo si lascia attraversare dal tempo dei pensieri: quindi si opera un confronto tra le differenti declinazioni che ha avuto, secolo dopo secolo, osservandone le mutazioni così come si osserva il cambiamento delle stagioni e, al contempo, ci si rende conto che esiste una armonia in tutto questo e che, quindi, anche nella contraddizione sussiste un principio di equilibrio che non corrisponde, tuttavia, alla necessità del controllo assoluto del nostro pensiero su di noi o viceversa.
Qualche trascendenza è pur sempre ammissibile e finisce col prescindere da noi, perché la lente dell’interpretazione è soggettiva fino a quando il dubbio suscita nuovi slanci conoscitivi che si lanciano nell’esame delle cose esistenti per superare il dubbio medesimo: se vogliamo, è qualcosa di estremamente assimilabile al metodo scientifico che, pur adoperando le contraddizioni come stimolo per la conoscenza progressiva, non le considera negativamente in quanto tali. Ma i filosofi, si sa, interpretano il mondo piuttosto di cambiarlo; mentre la scienza osserva, prova e cambia l’esistenza umana senza pretese rivoluzionarie.
Sostiene Fichte, nell’ormai celeberrimo assunto, che l'”Io pone sé stesso” davanti ad una infinitudine che è sete di sapere, tanto di sé stessi (come autocoscienti e, dunque, riflettenti – proprio come in uno specchio – la propria essenza tanto quanto la propria immateriale spiritualità, se vogliamo il nostro animo, la nostra psiche) quando di ciò che circonda. Nel proporre un’assolutizzazione conoscitiva da parte dell’Io, Fichte deve adoperare il metafisico come piano di sviluppo di una deduzione che include tanto chi osserva quanto chi è osservato. Sembra quasi non esservi distinzione tra chi prova a sapere e chi è invece oggetto dell’analisi, dell’osservazione, dell’ispezione costante.
Niente di più lontano potrebbe esservi da Herbart se non questo tentativo di cristallizzare nell’esperienza prima e nell’ignoto dell’inconoscibile (che può divenire conoscibile) l’Io, quindi l’essere noi stessi, autocoscienti, e capaci di una criticità che viene imbrigliata dalle maglie pericolosamente taglienti dell’inconsistenza della metafisica. Pare quasi un’ombra mefitica che va ben oltre l’innamoramento kantiano di cui si parlava all’inizio. Pare un tutt’uno tra noi e il resto da noi, poiché solamente attraverso noi sarebbe comprensibile l’esistente.
Grandemente affascinante il racconto di Fichte sull’Io; impossibile non esserne presi come da un sacro, anche se momentaneo, furore, da un bianco accaloramento che inebria perché ci rende tutta una serie di evanescenti teorizzazioni interiori che, chi prima, chi dopo, un po’ tutte e tutti abbiamo vissuto: le domande ancestrali, quelle che originano dalla notte dei tempi sulla nostra presenza qui ed ora, sulla nostra atavicità così come sulla nostra proiezione nell’ignoto del futuro (e viceversa). Ma Herbart, se da un lato ammette la liceità del dubbio come stimolatore del superamento delle proprie pigrizie mentali, dall’altro rimarca il ruolo sceptico della filosofia che, tuttavia, non è sufficiente nemmeno a sé stessa.
Se andiamo cercando una sorta di nuova spinta propulsiva gnoseologica, propriamente filosofica (quindi in quanto “elaborazione di concetti dati“), questa veleggia sul mare della di un superamento dell’esperienza come base dell’acquisizione della conoscenza e dello stesso metodo conoscitivo. La fenomenologia kantiana qui assume un ruolo primo nel riproporsi come elemento da cui prendere avvio per avere esperienza delle cose, dei fatti, dell’esistente. I fenomeni sono intrinsecamente vissuti dalle contraddizioni e, quindi, questa presa d’atto è propedeutica all’andare oltre quella che è soltanto l'”apparenza” dell’essere.
Per Kant il fenomeno è realtà, è conoscibilità, è conoscenza data dalla sensibilità. Herbart si rifiuta di prendere atto di ciò pur criticamente. Trascendere l’esperienza data dai fenomeni vuol dire tentare l’impresa ardimentosa dell’arrivare a considerare la cosa in sé indipendentemente dal nostro modo di rappresentarla, di valutarla, di farne un oggetto dell’esperienza medesima e, dunque, una fonte di conoscenza sicura. Peggio fa, secondo lui, l’idealismo che ci induce a ritenere che noi «siamo rinchiusi del tutto nei nostri concetti e che quindi non possiamo uscire fuori di noi stessi, per affermare una realtà che è indipendente dal nostro pensare». Si rischia qui una cortocircuitazione: le nostre categorie interpretative del reale ci inducono a ritenere reale ciò che magari non è tale.
La natura delle cose, pertanto, potrebbe pertanto non arrivarci nella sua veridicità oggettivamente riscontrabile, proprio perché, pur nella nostra autocoscienza e capacità di comprensione dell’esistente, noi mettiamo comunque dei filtri tra noi e ciò che ci sta innanzi. Si arriva a quello che è stato definito il “realismo pluralistico“: l’essere deve essere – riprendendo la scuola eleatica – senza grandi qualità, quindi privo di idiosincrasie e contraddizioni. Deve essere semplice ed eterno. Non deve avere estensioni, non deve essere misurabile né nello spazio e tanto meno nel tempo. Qui si esprime compiutamente l’unicità dell’essere che, quindi, mette da parte qualunque contraddizione tra i tanti “unici” che riscontriamo ogni giorno e le loro molteplici espressioni.
Nell’essere c’è pluralità, constatabile con l’esperienza, ma c’è unicità come essenza dell’essere medesimo: non è un apriorismo dogmatico, come potrebbe a prima vista apparire; semmai è una deduzione (o anche una controdeduzione) che prende l’avvio dal confronto con quella che noi chiamiamo, molto più banalmente, “realtà oggettiva“. Il realismo pluralistico cui si faceva cenno poco sopra è esattamente questo: constatazione dell’unicità e della molteplicità al tempo stesso che, nei singoli fenomeni naturali e riscontrabili mediante la sensibilità esperienziale, estrinsecano una serie di rapporti di interconnessione che determinano le qualità proprie di ogni fenomeno.
Di per sé la pluralità dei reali ha una sua connotazione nel momento in cui è interazione tra differenti confronti tra le cose, le persone, gli stati d’animo entro non la cornice, non un perimetro definito, ma la semplice unicità eterna dell’essere. Al pari della concezione idealistica fichtiana, l’anti-idealismo di Herbart crea una fascinazione non da poco, perché si incontrano e si scontrano grandi passioni per l’osservazione del reale, per l’introspezione, per il rapporto che intercorre tra la nostra essenza e il resto oltre noi, al di là dei nostri confini materiali. La metafisica, dunque, non è prescindibile, ma utilizzabile – proprio kantianamente parlando – per affinare ancora meglio una gnoseologia che lambisce l’ontologia e che fa dell’amore per la conoscenza la vera essenza della filosofia.
MARCO SFERINI
12 gennaio 2025
foto: screenshot ed elaborazione propria