IRAP. Basta questo acronimo fiscale per chiarire il senso del “Decreto Rilancio“, l’ultimo nato in casa Conte per mettere mano alla pericolosa deriva economica in cui l’Italia è piombata con l’arrivo del Coronavirus nel febbraio scorso. L’Imposta Regionale per le Attività Produttive sarà azzerata senza distinzioni: una tassa in meno, tra le tante, per qualunque impresa. Sia che sia stata colpita dalla chiusura e dagli effetti del Covid-19, sia che non lo sia stata. Parti uguali tra diseguali e l’ingiustizia è fatta.
La linea di Confindustria passa tutta quanta nel decretone da 55 miliardi: una spesa tutta a debito, che il governo incassa e fa spendere al Paese futuro, alle generazioni che stanno crescendo e che verranno. Se ne vanta il Presidente del Consiglio, affermando che si tratta di quasi due manovre finanziarie messe insieme. Peccato che alla sanità vadano 3 miliardi soltanto e al settore imprenditoriale turistico ne vadano 4.
I padroni avranno, oltre al taglio senza distinzioni dell’IRAP anche tutta una serie di sgravi fiscali e di sostegni a fondo perduto che fino a pochi giorni fa erano insperati: la mediazione di Italia Viva, che ha preso profondamente a cuore (e come poteva essere altrimenti) le ragioni dei “poveri” industriali, ha prevalso sulle ragioni sociali di un decreto che invece poteva contenere più che risorse messe a debito degli introiti derivati da una tassa patrimoniale non tanto sulle strutture da capitale fisso (quindi sugli impianti produttivi), quanto dai profitti accumulati in tutti questi decenni e mai veramente tassati progressivamente.
Il talento, intenso proprio come “tàlantum“, quindi come bilancia antica su cui pesare le merci, che emerge dall’operazione economica del governo è tutto volto a salvaguardare le grandi centrali di produzione e i loro privilegi, mentre ai lavoratori a partita IVA e a tutte le piccolissime imprese artigianali e a conduzione familiare lascia davvero delle insulse briciole da spartirsi nei meandri di una burocrazia che non promette niente di buono in quanto a tempistiche di distribuzione.
Il capitolo sul lavoro dipendente, quello salariato, sull’altro grande capitolo che riguarda il vero motore economico del Paese, vede il prolungamento della cassa integrazione a 18 settimane, con altri sgravi per le imprese, crediti di imposta estesi fino al 30 e 60% per quei padroni che ricapitalizzano le loro aziende. Ma al mondo del precariato, della famiglia indigente, dei riders, della galassia di lavoratori autonomi (che rappresentano circa il 20% del totale del monte lavoro italiano), restano soltanto 600 euro di bonus ed elemosine da reddito di emergenza stabilito in 800 euro ma diviso in due erogazioni da 400 euro ciascuna.
A fronte del numero di popolazione coinvolta, la diseguale distribuzione dell’intervento economico stabilita nel “Decreto Rilancio” qui viene completamente emergendo rispetto alla distribuzione di soldi a fondo perduto e alle tante detassazioni concesse a Confindustria e al padronato in generale.
Siamo, quindi, davanti ad un decreto classista che individua il benessere dell’Italia nel sostegno quasi totale a chi ha garanzie di sopravvivenza quasi eterne nei caveau di banche estere e in azioni che salgono proprio grazie alle manovre economiche messe in campo dall’esecutivo. Per il lavoro dipendente, per i lavoratori stagionali, per quelli precari non rimane che aggrapparsi alla speranza che i padroni non incamerino tutto – come sono naturalmente portati a fare dal sistema in cui prosperano e al quale consentono di prosperare – e redistribuiscano almeno qualche spicciolo in sicurezza sanitaria e, in generale, nella sicurezza sul e del posto di lavoro mediante ammortizzatori sociali pagati a duro costo dalle casse pubbliche.
In sostanza, oggi si emette un grosso debito, scaricato tutto sulle spalle di ogni contribuente per sgravare i padroni della grande, enorme, titanica crisi che li ha colpiti in soli due mesi di chiusura!
Fanno bene a lamentarsi, a questo punto, tutti quei comparti del lavoro cittadino che fanno parte non della filiera produttiva internazionale, del libero scambio tra continenti e della regolazione della bilancia (siamo sempre nel “talento“…), ma del dettaglio, del rapporto tra negoziante e acquirente diretto: dagli estetisti ai parrucchieri, dai ristoratori ai bar, dai mercatini settimanali che si tengono nelle città e che smerciano a basso costo prodotti di importazione non certamente firmati come le borse o le scarpe delle mogli dei padroni e di loro medesimi.
Queste categorie non hanno alle loro spalle una sicurezza finanziaria tale che li protegga da altri mesi e mesi di chiusura economica anche indiretta: ossia da quel protrarsi di una condizione di contrazione della domanda dovuta al timore giustificato dei cittadini di recarsi al ristorante o al mercato, dal parrucchiere o al bar sapendo che sono praticamente impossibili da rispettare le regole (peraltro giuste) di distanziamento individuale nei locali unitamente al bisogno di socialità che quei locali medesimi esprimono per loro intrinseca natura.
Per ultime le lacrime della ministra Bellanova sulla regolarizzazione dei migranti stagionali per lo schiavistico lavoro nei campi. Dalla Legge “Bossi-Fini” in avanti, è progressivamente aumento il numero dei lavoratori privi di un volto, privi di qualunque diritto: sono gli invisibili, quelli che vengono chiamati “il sommerso“. Che non riguarda solamente il lavoro dei campi ma tanti altri ambiti dove il caporalato la fa oltremodo da padrone e impone ritmi di lavoro e paghe indegne di poter essere definite tali.
Partiamo da un punto, per così dire morale: seguendo la propria coscienza oltre che le norme costituzionali, i migranti “sommersi” avrebbero dovuto essere regolarizzati da anni e non ora. Ma ora sono necessari, visto che le frontiere dei paesi dell’Est sono chiuse e dai paesi slavi non arriva alcun bracciante pronto a crepare sotto il sole estivo per poter raccogliere i pomodori a 2 euro l’ora!
Visto che sono “lavoratori necessari” (dicitura che si usava anche nel corso della Seconda guerra mondiale a proposito degli internati nei campi di lavoro e di sterminio del Terzo Reich…), li si porta ad una regolarizzazione condizionata dalla capacità individuale di trovare, nel corso di sei mesi, quel lavoro stesso che gli dovrebbe invece essere garantito come base del nuovo rapporto tra ex-schiavo (sic!) e vecchio padrone schiavista ora divenuto nuovo padrone liberamente e legalmente sfruttatore.
Sempre meglio di niente? Beh, certo. Anche chi veniva frustato quattromila anni fa per tirare i pesanti carichi per costruire le piramidi era grato alla società e al potere se invece di quaranta scudisciate quotidiane ne riceveva la metà. Ma sempre di colpi di nervi di bue di trattava…
Tutto è migliorabile, anche il peggio del peggio, così da sembrare un po’ meglio, sempre progressivamente e poter essere spacciato per chissà quale grande conquista di civiltà. Le destre sovraniste si infuriano per il semplice motivo per cui se un migrante, nei sei mesi di tempo concessogli, trovasse un lavoro vero e proprio verrebbe a quel punto regolarizzato. Terribile! Indegno per un Paese che dovrebbe invece considerare inferiori queste esseri umani e trattarli come semplice forza-lavoro africana, mediorientale o slava. Tutti popoli sottosviluppati, imparagonabili alla grandiosa civiltà italiana!
Tutto è relativo nella considerazione morale, perché se si prescinde dalla coscienza di classe non resta che la propria coscienza individuale e quindi si rompe quel rapporto intimo tra singolarità e collettivo e si tende sempre e soltanto a vedere l’interesse particolare, egoisticamente inteso e mai il tutto nella sua universale trasformazione continua, nell’evoluzione che dovrebbe essere progressiva e che, invece, nella maggior parte dei casi è sinonimo di regressione. Morale, civile e sociale. Quindi dominio esclusivo dell’economia capitalistica di mercato.
No, il governo non ha salvato l’Italia dal disastro. Ha salvato le tasche dei padroni dall’essere meno piene del solito e non ha riempito quelle della povera gente che a fatica arriva a fine mese e che sopravvive della miseria consueta, quella ante-Coronavirus che sarà, se non uguale, anche un po’ peggiore rispetto a pochi mesi fa. Ah… cara, vecchia, beata normalità dello sfruttamento, dell’alienazione e del famoso trittico: “Produci, consuma e crepa“.
MARCO SFERINI
14 maggio 2020
Foto di Andrea Toxiri da Pixabay