Bosch, Perugina, Electrolux, Honeywell. L’elenco delle vertenze e delle crisi industriali si allunga ogni giorno di più. Il motivo di questa escalation è presto detto: le multinazionali sono le prime ad affrontare il tema decisivo del prossimo periodo – e fra poco a loro si affiancheranno tante altre imprese di dimensioni minori o interi settori produttivi (gli elettrodomestici, ad esempio). Un tema che si riassume in tre parole: fine degli ammortizzatori sociali. Il Jobs act ha ridotto in maniera fortissima la durata di cassa integrazione e contratti di solidarietà e così le imprese hanno due via d’uscita: o delocalizzano lasciando l’Italia (Honeywell) o licenziano (Perugina). La terza via è stata tentata dalla Bosch a Bari: fare un accordo aziendale ponte in deroga al contratto nazionale riducendo orario e salario.
Al ministero dello Sviluppo e – soprattutto – ai dirimpettai del ministero del Lavoro la situazione è chiara da tempo. Per questo sottovoce e senza ammettere di farlo, si stanno muovendo per rottamare il Jobs act, riallungando la durata degli ammortizzatori sociali e inventandosi nuove integrazioni salariali. Gli strumenti sono diversi: circolari interpretative, leggine specifiche, fondi interministeriali che vengono “girati” per trovare risorse.
La crisi Bosch ad esempio si è risolta – meglio, si sta risolvendo – grazie alle assicurazioni del ministero del Lavoro: assicurazioni che si tramuteranno presto in una «circolare interpretativa» per evitare di rispiegarle alle tante multinazionali con lo stesso problema. Nello specifico, il Jobs act ha introdotto il cosiddetto «quinquennio mobile»: a partire dall’entrata in vigore del settembre 2015 e per i successivi cinque anni le imprese possono utilizzare i contratti di solidarietà per soli 3 anni e la cassa integrazione straordinaria per 2 soli anni. La circolare permetterà però di allungare i periodi considerando da non conteggiare nel computo i periodi già stabiliti prima del settembre 2015.
Nella trattativa in corso con i sindacati all’interno della Fase 2 sulle pensioni poi il Ministero si è già impegnato a verificare la possibilità di introdurre una norma transitoria che preveda un allungamento della durata della Cassa integrazione straordinaria per le «aziende a rilevanza nazionale e dal forte impatto occupazionale» «i cui programmi di riorganizzazioni non siano ancora conclusi e ci siano piani di investimento e prospettive di ripresa». Anche in questo caso si tratta di una vera marcia indietro rispetto alla ratio del jobs act che mirava «a chiudere le aziende decotte e senza futuro», Renzi dixit, «favorendo il contratto di ricollocazione» voluto da Pietro Ichino. Per finanziare questa misura in legge di Bilancio si dovrebbero dirottare 100 milioni dal Fondo occupazione, una vasca da cui i vari governi attingono ogni anno con le causali più impensabili.
C’è poi il capitolo delle tante aree di crisi. Il dramma di Piombino con la Aferpi di Rebrab sempre più vicina all’ennesimo flop e con gli oltre 2mila lavoratori che da quasi 5 anni vanno avanti con gli ammortizzatori sociali, ha portato il governo a decidere ad allungare i termini di utilizzo della cassa integrazione straordinaria per la decide di province italiane che sono annoverate nella non invidiabile espressione «area di crisi complessa»: sono ben 22 in 12 regioni, da Trieste a Gela, senza dimenticare mezza Sardegna.
Queste misure riusciranno ad evitare lo scoppio di altre crisi? Assolutamente no. Per due motivi: «per le imprese è più facile licenziare che attivare gli ammortizzatori sociali», denuncia Tania Scacchetti, segretario confederale Cgil.
In più «a settembre 2018 scadranno gli ammortizzatori per le tante imprese del settore elettrodomestici che hanno ristrutturato già con il Jobs act in vigore. E lì non ci sono interpretazioni per allungare le durate. Il governo ha condiviso con noi piani di ristrutturazione ma nel frattempo ci stava cancellando con il Jobs act gli strumenti per gestirli», denuncia Gianluca Ficco della Uilm.
MASSIMO FRANCHI
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