Quando l’hanno fermato era sotto al monumento ai caduti di piazza della Vittoria, con il braccio destro teso per un saluto romano e un tricolore sulle spalle. Ha gridato «Viva l’Italia» e poi si è consegnato ai carabinieri, ammettendo di essere stato lui ad aver seminato il panico per tutta la mattinata di ieri a Macerata, sparando con una pistola dalla sua Alfa Romeo e ferendo sei persone, tutte originare dell’Africa subsahariana. Luca Traini, 28 anni, incensurato, fisico possente, un tatuaggio che rimanda alla simbologia nazista sopra al sopracciglio destro.
«Era innamorato di una ragazza romana tossicodipendente», ha dichiarato la segretaria provinciale di Macerata della Lega, per cercare di spiegare l’inspiegabile. Il pensiero, inevitabilmente, va a Pamela Mastropietro, la 18enne trovata fatta a pezzi mercoledì scorso a Pollenza, nell’entroterra. Per il suo omicidio è stato arrestato il 29enne nigeriano Innocent Oseghale. Lo zio della ragazza, comunque, ha poi negato ogni legame: «Mia nipote non ha mai avuto nessun rapporto di alcun tipo con lui». E d’altra parte sarebbe cambiato molto poco, benché su Facebook sono già arrivate le pagine intitolate a Traini e alla «vendetta per Pamela».
Francesco Clerico, titolare della palestra Robbys di Tolentino, dove il 28enne andava ad allenarsi, ricorda di aver «cacciato Traini a ottobre» perché «aveva atteggiamenti sempre più estremisti, faceva il saluto romano e battute razziste». E poi? Per Clerico, Traini è stato rovinato dalle «amicizie sbagliate» e dagli «ambienti estremisti» che si sono sommati a «una situazione familiare disastrosa».C’è voluto poco per scoprire che Traini, lo scorso giugno, si era candidato al consiglio comunale di Corridonia, con la Lega Nord. Zero voti per lui, ma ancora ci sono tracce di una campagna elettorale mandata avanti a colpi di slogan come «difesa preventiva» e «non rassegnatevi». Traini, evidentemente, non si è rassegnato, e ha messo in scena la sua versione della difesa preventiva.
Al netto di ogni motivazione personale, l’azione di ieri mattina appare pensata, studiata, programmata, come se fosse il copione di una recita. Un atto premeditato, lucidissimo nella sua follia. E forse la definizione di terrorismo dovrebbe essere estesa anche ad azioni del genere.
Il sindaco, Romano Carancini, mentre in città si scatenava il panico ha fatto circolare un messaggio audio in cui chiedeva a tutti di ripararsi e di rimanere in casa, come se fosse un assedio. Le auto della polizia e dei carabinieri intanto bloccavano le strade e il trasporto pubblico veniva sospeso. Scenari da guerra che fino ai ieri sembravano lontanissimi da una provincia che si pensava tranquilla per definizione. Adesso dietro ogni angolo sembra esserci un’ombra, nonostante le apparenze. Anzi, proprio come le apparenze.
Da un paio d’anni a questa parte, le Marche sembrano diventate l’Alabama d’Italia: nel luglio del 2016, a Fermo, il nigeriano Emmanuel Chidi Namdi fu ucciso a botte da Amedeo Mancini, ultras della Fermana, molto vicino agli ambienti dell’estrema destra locale. All’inizio di quest’anno, poi, a Spinetoli, in provincia di Ascoli Piceno, una palazzina destinata a occupare dei migranti è stata data alle fiamme, al culmine di un periodo di tensioni e proteste che aveva dilaniato il paesino, con il sindaco Alessandro Luciani (Pd) che ha manifestato con Lega e Casapound contro «il business dell’immigrazione» e la «falsa accoglienza». Il clima è pesante da tempo, e quanto accaduto a Macerata era in fondo preventivabile: a forza di alimentare l’odio, è naturale alla fine che qualcuno metta in pratica i propositi ascoltati e ripetuti a reti e blog unificati.
È così che, complice la campagna elettorale, in giro si trova anche chi è disposto a giustificare lo sparatore di Macerata, addirittura a difenderlo, a farlo diventare un simbolo della «razza bianca» (altrove evocata in questa tremenda campagna elettorale) vessata e minacciata dall’invasione.
«Un folle», hanno detto di Traini i più moderati. Un prodotto del clima di «esasperazione» dovuto ai troppi migranti nelle città. E già dietro alla costernazione si vede l’apologia. Perché se c’è una parola con la effe da usare in questo caso, non è «folle». È «fascista».
MARIO DI VITO
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