Ricordo le lotte di alcuni decenni fa su temi importantissimi come la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, oppure vecchie gloriose altre lotte come quella contro il nucleare, quella per il diritto delle donne a decidere sull’interruzione di gravidanza (leggasi: “aborto“); oppure, ancora, l’inizio delle manifestazioni per la libertà di coscienza in ambito militare: obiezione in merito all’imbracciare un fucile, prendere una pistola in mano, dire ogni giorno decine di “signorsì” o “signornò“.
Tutte queste battaglie sociali e civili hanno avuto lunghe gestazioni e, successivamente, altrettanto lunghi percorsi di sviluppo in seno alla politica italiana che se ne nutriva e le disarticolava in dibattiti televisivi, sui giornali, nei bar, nelle piazza e nei comizi elettorali ogni qual volta veniva montato un palco per l’oratore di turno.
Oggi questa onda lunga delle lotte è scomparsa. E’ un dato incontestabile, supportato dal fatto che manca il presupposto affinché una lotta tanto sociale quanto civile possa durare nel tempo e diventare un patrimonio comune, pubblico, culturalmente presente nella quotidianità della vita cittadina, di campagna, dei grandi agglomerati urbani o della semplice ma pur sempre importante realtà di provincia.
Oggi, ogni giorno, le tematiche si affastellano fra loro, si spingono e respingono come palle da biliardo e, talvolta, qualcuno di queste finisce fin troppo presto in buca e ci si dimentica del fervore con cui precedentemente, nemmeno molto tempo prima, tutte e tutti ci si era lanciati al sostengo di questa o quella causa eteroguidata dall’attenzione spasmodica provocata dai mass media che hanno, in questo senso, una duplice responsabilità.
Una positiva: quella di portare a conoscenza di milioni e milioni di persone temi che altrimenti sarebbero completamente oscurati, visto che la stragrande maggioranza degli italiani a fatica legge un libro all’anno, con qualche resipiscenza sfoglia i giornali, per il resto – per lo più – si fa imbonire da notizie false raccolte da improbabili siti di informazione e di inchiesta sparsi per la trappola internettiana.
Una negativa: quella che induce gli stessi mezzi di comunicazione di massa a manipolare, a gestire i fatti, quindi ad “informare i fatti” (come aveva intuito bene Jacques Derrida a suo tempo…) e non “sui fatti” e a creare l’opinione pubblica piuttosto che a renderla correttamente edotta di quanto le accade intorno, nel limitrofo della vita di ogni giorno.
E’ ben noto, del resto, che tutto ciò rappresenti una endemicità non eliminabile nel mondo dell’informazione, se non tramite l’uso della coercizione, la sospensione dei diritti costituzionali che, peraltro, non prevedono il vizio di una forma – se così lo vogliamo intendere – e quindi non ritengono la deformazione dell’informazione un reato, una contravvenzione, ma semplicemente una parte di quella lotta dialettica che, questa sì, è l’unica rimasta ad avere un lungo, lunghissimo corso nel tempo.
Siccome viviamo, almeno formalmente ancora, in una repubblica democratica, dove è permesso criticare il governo tanto quanto le opposizioni, dove è consentito esprimere le proprie opinioni senza nuocere agli altri, lo sforzo che l’informazione dovrebbe fare sarebbe quella di rendersi sempre più indipendente dai padroni che la finanziano e la mantengono e acquisire così un potere di costruzione della verità, esattamente svolgendo un ruolo di giornalismo di inchiesta che si scorge sempre meno presente, fatta eccezione per alcune trasmissioni televisive che mettono un lodevole impegno nello sfidare le ire dei poteri economici, di una certa rancorosa politica sovranista, incapace di produrre controdeduzioni in merito e, quindi, produttrice di un evitamento continuo dei richiami delle commissioni parlamentari sul controllo della sicurezza nazionale.
Report ha avuto e ha tutt’ora questo merito: di aver svolto un lavoro giornalistico veramente notevole, di grande importanza: dati alla mano, fonti visibili e non nascoste dietro anonimati di nessun tipo, ha consentito (consente e ancora consentirà con la seconda puntata dell’inchiesta su “Russiagate” di casa nostra) di provare a capire che specie di persone ci troviamo innanzi quando parliamo dei sovranisti.
La prima parte dell’inchiesta di Report “La fabbrica della paura”
Ha riaperto un vaso di Pandora che contiene le peggiori alleanze tra forze economiche, pseudo-religiose, integralismi di tutti i tipi, dalla Russia all’America, passando per l’Europa dei moderni neonazisti targati “sovranisti“.
Una “internazionale nera” cui sopra si può glissare, sfuggendo alle domande dei giornalisti, affermando che ci si occupa dei lavoratori, dei disoccupati e che, sempre rivolgendosi ai cronisti, “se siete ridotti a parlare di questo, siete messi molto male“. Qui non occorre certo Sherlock Holmes per capire che c’è un certo rumore stridente di unghie sui vetri, un provare a buttarla in battuta, dicendo che “mica vado in strada a vendere barili di petrolio” o sviando il discorso, ancora una volta, affermando che “l’ENI è una azienda seria“, senza che l’ENI fosse stata minimamente tirata in ballo in quanto a serietà nell’inchiesta di Report.
Abile tattica comunicativa, figlia di una strategia giornaliera che prevede l’utilizzo dei social network come megafono di ottima risonanza delle più vuote banalità antisociali, disumane e crudeli fatte passare come armi di difesa dell'”orgoglio italiano“, della sovranità nazionale, del “prima gli italiani“, contro tutta una informazione genericamente etichettata come “di sinistra” (un po’ come, un tempo, quando qualcuno pensava di poter dare del “comunista” a tutte e tutti coloro che non erano dalla sua parte…) e che è invece soltanto corrispondente alla difesa di un sistema di valori tutti imperniati sulla centralità del mercato e del rapporto che l’Italia ha con l’Europa o altri poli capitalistici.
Questa informazione “di sinistra” (che è ascrivibile a quelli che un tempo avremmo definito giornali “borghesi“) non critica i sovranisti per celebrare invece i comunisti. Critica i moderni agglomerati di camicie verdi, nere, rossobrune e così via… perché rappresentano oggettivamente un estremismo indebito nella gestione di una “pace sociale” che governi come quello attuale invece tendono a garantire pur tenendosi abbondantemente lontani da qualunque emersione dei diritti sociali, del lavoro, di tutti gli sfruttati.
Sono proprio inchieste come quella di Report a ridare un po’ d’ossigeno non all’opposizione comunista nei confronti delle destre sovraniste, ma alla democrazia repubblicana, all’asfissia che subisce ogni volta che certi titoli vengono passati nelle rassegne stampa e ti domandi, certamente con una ampia dose di ingenuità, se quelli sono giornali o solamente pagine dove si scatenano i più bassi istinti rabbiosi e le frustrazioni di una vita fatta di tanto odio, pregiudizi e discriminazioni da non potersi nemmeno chiamare vita, ma soltanto “esistenza”. Una squallida, mortificante esistenza.
MARCO SFERINI
24 ottobre 2019
foto: screenshot dallo streaming della trasmissione Report (Rai 3)