Il gabbiano Jonathan Livingston

Non so se sia più bello vederli volare d’inverno o d’estate. Forse non c’è differenza, perché l’idea della contrapposizione delle stagioni è ridicola. Il volo è il volo. Le...

Non so se sia più bello vederli volare d’inverno o d’estate. Forse non c’è differenza, perché l’idea della contrapposizione delle stagioni è ridicola. Il volo è il volo. Le ali sono le ali e lo stridio che lanciano nell’aria è la voce del mare che si eleva sopra le acque, che tocca il cielo e che diventa un tutt’uno con esso. L’altro giorno ne ho notati tre. Parevano tutti simili. Impettiti, sulla ringhiera che corre lungo la strada statale.

Due guardavano verso di noi e uno invece no. Altri volteggiavano sulla piccola isoletta davanti alla costa. Più in là qualcuno faceva delle fotografie. Da lontano. Per paura, forse. Ma sarebbe più bello pensare che quella distanza fosse dovuta al rispetto. A Roma una coppia di turisti ne ha preso uno e l’ha costretto a fare dei selfie sul Lungotevere. Una scena raccapricciante.

Peccato che i gabbiani, come tutti i volatili in generale, non siano aggressivi e che persino Alfred Hitchcock lo abbia sottolineato in quel capolavoro di filma che è “Gli uccelli” dove, per l’appunto, si vive il contrasto tra l’abitudinarietà di una vita tranquilla di provincia e lo sconvolgimento della stessa per l’improvvisa irrequietudine e molesta violenza dei pennuti che a stormi si dirigono contro case e persone.

Il gabbiano Jonathan Livingston” (Rizzoli, BUR, 2014) raccontato da Richard Bach è mondialmente famoso, una celebrità e la sua epopea (se così la si può benevolmente definire) è diventata un successo planetario. Fondamentalmente perché è una metafora profonda, multiverso, ricca di spunti di riflessione, ottima per affastellare i dubbi, uno sopra l’altro, circa il vero significato che l’autore abbia voluto dare a questa o quella frase, a questa o quella immagine.

Ancora di più di altri libri per bambini, che poi non solo per fanciulli sono, come la “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” o “Il Piccolo principe“, la storia di Livingston è tutta una metafora e una allusione al tempo stesso: dei comportamenti umani, di quelli degli umani nei confronti del resto del mondo, del rapporto tra noi e la caducità dell’esistenza calata nella quotidianità miserevole del ristretto campo visivo di un volo meschinamente materiale (non materialista) e esageratamente pragmatico.

Al di là delle proprie ali che servono per volare fino a dove si può trovare il cibo, i gabbiani dello stormo Buonappetito non guardano e non vanno. Arricciano il becco, aggrottano perplessi gli occhi mentre Jonathan fantastica e si produce in piroette aeree che disvelano l’essenza della natura di un volatile. Essere sé stessi e ricercare questa essenza pur senza trascurare le necessità di ogni giorno. Ma essere qualcosa di diverso e, forse, anche di più del semplice autoriprodursi.

Così, per questa sua ribellione incomprensibile, diventa un “reietto“, anzi “Il Reitto“, per antonomasia. Viene allontanato dallo stormo che, da questo momento in poi, diventa il suo contraltare in tutto il corso della storia di Bach. La società lo espelle perché non lo comprende, perché lo sente altro da sé, perché, probabilmente, ne teme le intuizioni libertarie, la voglia di conoscersi e riconoscersi nella giocosità e nella gaiezza del volo.

Jonathan ci prova a mettere insieme la sua voglia di essere veramente un gabbiano con quelle che sono le regimentate regole dello stormo. Ma è uno sforzo del tutto inutile. Resta da solo. Emarginato, deriso per le sue stramberie: il volo acrobatico anzitutto. Si ritira sulle scogliere e continua a piroettare nel cielo. Perfeziona la sua tecnica e vive così fino a quando non arriva, con la vecchiaia, la morte. Due uccelli bianchissimi lo portano con sé.

Qui avviene una trasformazione: al pari dei suoi “angeli“, anche lui ne assume le fattezze. Risplende di un candore mai visto e la grazia del suo volo è ineguagliabile. Bach mescola, nel corposo impianto di similitudini di cui farcisce il libro, un bel po’ di tendenze culturali tanto laiche quanto religiose: ed è forse per questa ragione che, quando uscì la prima volta nel 1970, il consenso verso la sua opera fu trasversalissimo.

Chiunque poteva riconoscervi i tratti di almeno una parte della propria impostazione culturale, sociale e persino politica: la favola, infatti, si presta a declinazioni di ogni tipo. E così dai cattolici fino alla generazione della New Age, dai massoni dell’A.G.D.G.A.D.U. all’anarchismo. Siamo in presenza di un’opera che, proprio perché eleva la morale quasi oltre sé stessa e costringe l’essere umano a fare i conti con la più intrinseca e pura interiorità, si adatta a qualunque principio metafisico che riguardi la perfezione dell’esistenza.

O, più opportunamente, la perfettibilità della stessa. Tuttavia Jonathan non è un egotico, un narcisista che vuole dimostrare allo stormo quanto è bravo. Ma vuole, invece, trasmettere queste sue capacità come esempio: anche voi potete essere così, perché essendo gabbiani, possiamo migliorare nelle nostre peculiari qualità. Il volo che diviene arte, bellezza interiore resa magnificamente dalla leggiadria delle circonvoluzioni, dalla seraficità dei movimenti aggraziati.

Tutt’altro che la leggerezza antimorale di un eccentrismo egoistico vi è nella storia di Livingston. Tutto il contrario. Bach, dopo insistenti richieste da parte della critica e dei lettori, affermò, senza risolvere comunque l’enigma di cosa veramente rappresentava l’intera sua metaforica opera, di esseri ispirato, per la storia gabbianesca, al pilota acrobatico John H. “Johnny” Livingston che, tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, si era distinto proprio nelle evoluzioni aeree più belle e mai viste.

Ma questa era una spiegazione semmai dell’origine forse del nome dato al suo gabbiano. Lui, in quanto tale, era molto, molto altro. Il resto della storia procede con lezioni e apprendimento delle qualità aeree dei pennuti bianchi. Jonathan istruisce Fletcher, riportato in vita dall’empireo regno delle anime, e la missione del suo allievo sarà quella di tramandare questi insegnamenti ad altri gabbiani, sperando di poter un giorno ritrovare il suo maestro.

Particolarmente interessante è la quarta parte del libro di Bach, perché qui il nostro Livingston cessa d’essere il protagonista e lascia il passo e le pagine al racconto di come Fletcher fu l’animatore della libertà del volo, proibita invece dall’assemblea degli anziani dello stormo Buonappetito, e – sempre nello stile narrativo impersonale scelto dall’autore – descrive l’oblio degli insegnamenti di Jonathan. Passano due secoli prima che se possa ritrovare traccia grazie ad Anthony.

La sua caparbietà è il frutto del desiderio di trascorrere una vita non inutile, ma di esprimere sé stesso proprio riprendendo l’acrobaticità livingstoniana. Ed un giorno, mentre si trova in volo, un suo simile gli passa accanto, lo sfiora e sembra invitarlo a seguirlo. Anthony cerca di raggiungerlo, ma inutilmente. Poi, allo stremo delle forze, gli si pone davanti e gli chiede: ma chi sei? La risposta: «Chiamami Jon».

Bach dedica il libro «Al vero Gabbiano Jonathan che vive nel profondo di tutti noi». Ed è proprio la quarta parte del romanzo-favola-racconto che rende l’essenza dell’opera: l’autore si rende conto o, quanto meno, percepisce l’inquietudine che l’immagine di Jonathan possa essere stata agiograficamente troppo esaltata e rischi di oltrepassare i limiti della metafora e dell’esempio. Così introduce un capitolo che, se non ridimensiona la sete perfezionista di Livingstone, almeno equilibra i piani tra lui e i suoi allievi.

Perché dalla quarta parte aggiunta successivamente alle prime edizioni, si mostra la concretezza della natura di ognuno di noi: nulla di speciale, di singolare, ma presente in ciascuno e quindi un potenziale inespresso o espresso a seconda dei casi. Ma non esclusivo di un solo Jonathan che non è il dio dei gabbiani perché ne interpreta al meglio il volo acrobatico e le caratteristiche intrinseche. È e resta un esempio da seguire, senza elevarsi ad altezze in cui si rischia l’asfitticità e la caduta a terra.

La fuga dal conformismo dello stormo non è ribellismo fine a sé stesso, ma interpretazione della propria peculiarità messa al servizio di tutti. La incolore e grigia esistenza dei gabbiani del Buonappetito è ciò che Jonathan intende abbandonare e far abbandonare ai suoi simili: per una vita libera in cui ognuno esprime pienamente sé stesso riconoscendo nei propri progressi anche le potenzialità altrui e viceversa.

Non c’è, sembra, limite alla capacità di volare e, quindi, alle potenzialità dell’esistenza. Chiang insegna a Livingston il volo istantaneo, mediante il pensiero. E tuttavia non ci si può trovare ovunque sempre e comunque. I limiti esistono. Ma alcuni possono essere superati. La spiritualità presente nel romanzo breve di Bach è indubbia: per questo la filosofia New Age ne è stata profondamente colpita.

Ma è una percettività interiore che prova ad unire sensorialità e pensiero, azione e costrutto mentale: rimane quindi al livello di un insegnamento della salubrità dell’animo rispetto all’attenzione onnipresente nelle nostre esistenze della cura del corpo e nell’autoconservazione esclusivamente materiale. Se vogliamo, l’opera di Bach ha anche una velatura critica rispetto al consumismo dominante, ad una società che si guarda l’ombelico e non vede il disastro in cui va a piombare.

Il sincretismo filosofico, religioso e culturale costruito da Bach fa di questo scritto breve – e come molti scritti brevi, eccezionale – una pietra angolare di riflessione sulla incompresibilità ripetitiva dei gesti più comuni, delle abitudini più consolidate che, infingardamente, ci regalano una sicurezza del tutto priva di vere fondamenta, cullandoci in una ansiogenità permanente, in una precarietà totalizzante.

La lettura di Bach può, terapeuticamente, servire allo scopo di astrarsi per qualche attimo dal contesto frenetico in cui si sopravvive per fermarsi a pensare e dirsi: «Ma io quando veramente sono felice? E poi, lo sono? Che cosa mi riesce più naturale fare?». In questa spontaneità sta la chiave dell’emersione del nostro io più profondo, della nostra essenza a cui dobbiamo dare spazio, voce e protagonismo nella quotidianità di un conscio che obbedisce alle regole e soffoca i desideri.

Parte della critica ha rilevato, con una certa oculatezza, che la sincronia cui Bach ha sottoposto il suo romanzo è un elemento di debolezza strutturale dal punto di vista tanto filosofico quanto spiritualistico. Mettere insieme esperienze temporali così diverse e culture molto antitetiche tra loro avrebbe quindi dato vita ad uno scritto infantilmente puerile e superficiale. Si tratta di una obiezione non del tutto campata in aria.

Ma se mettiamo sui piatti di una bilancia il messaggio complessivo del narratore e il successo mondiale ottenuto, si può certamente affermare che di questo romanzo qualche miliardo di persone sentiva il bisogno. Quindi, se ne deduce che Bach ha toccato le corde intime dell’interiorità umana, le ha solleticate e ha provocato un sussulto di enorme interesse che, ancora oggi, dura.

IL GABBIANO JONATHAN LIVINGSTON
RICHARD BACH
RIZZOLI, BUR, 2014
€ 14,00

MARCO SFERINI

17 luglio 2024

foto: particolare della copertina del libro


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