Nella sua molteplice unità, quindi nella convivenza tra molteplice e singolo, come del resto avviene per tutto ciò che è contenuto nel mistero dell’universo, può un popolo essere portatore di una “linea politica”?
Provo a spiegarmi meglio: è in grado la massa di milioni di persone essere convogliatrice di una volontà politica cosciente oppure ogni volta che essa si esprime attraverso il meccanismo della delega del voto sono tante piccole volontà che si sommano e che formano casualmente quella “linea politica”, quell’indirizzo?
Si direbbe che se il singolo punta al perfezionamento della tutela e dello sviluppo del “bene comune”, dovrebbe tenere conto di entrambi gli aspetti: singolare, rivolto quindi a sé stesso, e molteplice, guardando dunque alla complessità dei fenomeni che si possono innescare con la scelta personale nei confronti di questa o quella forza politica.
Si potrebbe altresì affermare che, vivendo nel sistema delle merci, dell’accumulazione del profitto e pertanto della massima esaltazione della singolarità, dell’individualismo esasperato dalla concorrenza spietata tra i proprietari dei mezzi di produzione, paradossalmente nessun sistema politico rappresentativo possa alla fine essere davvero ciò per cui è stato creato, poiché l’egoismo intrinseco del capitalismo condizionerà sempre qualunque anche minima insubordinazione nascente dal desiderio, dalla voglia di esprimersi come esseri umani e come cittadini in favore del benessere collettivo.
Tutte queste proposizioni sono opinabili, indubbiamente, ma sono altrettanto veritiere e constatabili nel momento in cui, nonostante la ridotta partecipazione popolare alle tornate elettorali, nonostante dunque la distanza che aumenta tra rappresentati e rappresentanti, tra popolo e istituzioni, si forma la volontà collettiva mediante l’inserimento di una scheda alla volta nelle urne delle migliaia e migliaia di sezioni nei seggi.
La volontà è pertanto espressione di una maggioranza che non si conosce preventivamente e che viene formata (almeno così dovrebbe essere) con la campagna elettorale: questa dovrebbe durare un mese prima del voto ed invece ci troviamo ormai in quella che tutti definiscono, a ragione, una “campagna elettorale permanente”.
In fondo lo Stato sovente ha le caratteristiche di un potere “impersonale“, di un potere politico che esiste proprio nell’astratto e che, nella sua forma repubblicana, proprio dalla separazione tra persona singola e potere stesso attua la differenza che altrimenti, se non presente, lo renderebbe eguale alle monarchie.
Ma nell’astrattezza, lo Stato, in quanto rappresentazione di potere istituzionale e pertanto espressione della “volontà popolare” è anche un corpo separato dal potere economico, che lo sovrasta, che lo dirige nonostante il piano sovrastrutturale politico abbia sempre la naturale tentazione di separarsi dal dominio della struttura.
Ogni governo, dunque, altro non è se non la rappresentazione veramente esecutiva del potere politico, non solo perché è la legge fondamentale della Repubblica, la Costituzione, a consegnargli questo ruolo, ma anche perché tocca proprio al governo di essere l’immagine per antonomasia del potere politico: quando si impreca contro la politica che non fa i nostri interessi di classe o semplicemente si segue il moderno populismo tutto votato alla sola ricerca dell’onestà come programma politico massimo, si maledice sempre un governo mai una corte di giustizia, un alto colle o un parlamento.
Rimane vero che, nella stretta attualità che è figlia dei pochi anni precedenti in cui andava di moda il “vaffanculo”, erano le istituzioni nel loro insieme, viste come semplice “casta” politica, ad essere oggetto di sfregio e spregio, di anatemi e di condanne. Le distinzioni sarebbero state utili, almeno per conservare un minimo di capacità di discernimento tra i poteri dello Stato stesso, invece, con grande abilità oratoria, per creare una rivoluzione pentastellata mai veramente tale, s’è messo tutto in un unico calderone e si è creata ad arte una nuova “fascistizzazione” tanto dei concetti quanto delle rappresentanze sociali, politiche e civiche dei medesimi.
Oggi assistiamo al crollo di una rivoluzione mai fatta, forse tentata, ma distrutta dalle contraddizioni che il potere fa emergere nel momento in cui anche il più integerrimo ed onesto dei “cittadini” pentastellati si è trovato a dover gestire la cosa pubblica: tanto da parlamentare quanto da membro del governo.
Rovesciati i rapporti di forza con il voto europeo, anche se Matteo Salvini continua a giurare che nulla cambierà e che non chiederà nuove poltrone a fronte del 34% ottenuto dalla Lega, il governo è entrato in crisi quasi spontaneamente perché la fibrillazione era la conseguenza più che logica, inevitabile quando la forza che ha il numero di parlamentari che avrebbe l’altra con i voti dell’oggi, si trova a stare al governo con la metà dei consensi ma con un numero di ministri maggiore, quasi proporzionale al consenso che fu…
Tutto si è capovolto e sarebbe apparso, diciamolo, francamente innaturale che Lega e Cinquestelle si fossero rivolti gentilmente la parola il giorno dopo il voto, stringendosi le mani, abbracciandosi affermando che tutto continuava come se nulla fosse avvenuto.
Quella volontà dei singoli che, aperte le urne e scrutinate le schede, diventa piano piano, seggio dopo seggio, la volontà della maggioranza dei votanti, pur rimanendo una minoranza nel Paese (tradotto in percentuali, la Lega ha il 17% del consenso popolare potenzialmente totale, visto che a votare, in percentuale, si sono recati 52 italiani su 100), esprime un potenziale molto più ampio, diventa “senso comune“, si forma e va a formare allo stesso tempo quella orrenda espressione che l'”opinione pubblica“: qualcosa di impercettibile e invisibile, come l’aria, eppure esistente e pregnante ogni singolo aspetto delle nostre vite.
Qui non ci troviamo davanti al famoso “enigma del consenso” storicamente inteso: qui, per fortuna, siamo ancora nella fase della costruzione del consenso stesso e possiamo con discernimento accorgerci di tutti i metodi che vengono utilizzati per la formazione di quella che i cittadini credono essere la loro “volontà popolare”.
Giuseppe Conte lo ha in un certo modo stigmatizzato nella conferenza stampa in cui ha chiesto chiarezza di intenti e volontà ai suoi vicepresidenti del Consiglio: come se si fosse soltanto ora accorto che attraverso i “like” su Facebook e Twitter viene plasmata giorno dopo giorno la moderna adesione popolare alle politiche del singolo ministro; di quello che occupa un ministero importantissimo che, a differenza di altri, gli consente di fare comizi ogni giorno parlando di tematiche non prettamente tecniche, bensì esiziali per la vita di tutti, soprattutto degli strati più deboli della popolazione.
Nei venti minuti di “discorso alla nazione“, Conte mi è apparso come un funambolo che d’improvviso si sveglia sulla corda che sta percorrendo da un anno e che si trova nel vuoto, a trecento giorni da terra con davanti la prospettiva annebbiata, un invisibile punto di approdo ma la corda comunque sempre tesa.
Contraddizioni di una maggioranza di governo. Contraddizioni inevitabili di un sistema politico attorcigliato su sé stesso, la cui unica speranza di mantenersi apparentemente democratico sta nell’incertezza del tutto: tanto dell’attuazione del “contratto” quanto nei sentimenti della gente che si è appena espressa nelle urne.
La volontà popolare, più o meno sincera e veritiera che sia, ha il suo ruolo nella tenuta del governo. Tuttavia saranno sempre e solo i mercati a decidere se serva un nuovo presidente del Consiglio o se possa trovare stabilità l’attuale esecutivo con l’apertura di quella “fase 2” invocata da Conte e che altro non sarà se non un asse di equilibrio giornaliero da verificare di volta in volta e sotto al quale qualcuno farà sempre segretamente il tifo perché il capo del governo e il governo stesso cadano dalla parte che consenta di presentarsi al “popolo sovrano” come i nuovi, unici capaci di salvare ancora una volta la patria…
MARCO SFERINI
4 giugno 2019
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