Il fragoroso schianto del Futurismo ai tempi di Meloni

Dalla Galleria nazionale al Maxxi alla Quadriennale: brevi cronistorie che raccontano la «cultura di destra»

Alla luce degli ultimi avvenimenti dello spoil system in campo culturale operato dal governo Meloni, forse sarebbe il caso di porsi seriamente una domanda: ma la cultura di destra esiste davvero? Oppure è solo una Fata Morgana mediatica? Tutto è iniziato qualche anno fa, quando gli ex missini hanno cominciato ad appropriarsi di Gramsci e Pasolini in mancanza di altri intellettuali-testimonial.

A parte naturalmente i soliti Papini, Prezzolini, Evola, Gentile e pochi altri. Per non parlare di Ezra Pound diventato brand per un noto centro sociale neofascista, nonostante le diffida da parte degli eredi. Le cose non sono poi molto cambiate, dal momento che il neoministro della cultura, Alessandro Giuli, ha dato alle stampe il libro Gramsci è vivo! Peccato che a farlo morire in carcere siano stati proprio quelli che il futuro laureato ha avuto come punti di riferimento in giovinezza.

Certo, nessuno avrebbe mai potuto immaginare che il governo Meloni si sarebbe occupato di cultura o, meglio, avrebbe militarmente occupato questo campo in modo capillare. La sinistra insomma è stata presa in contropiede. Probabilmente perché la parola «cultura» e la parola «destra» messe insieme costituiscono una sorta di ossimoro. Grave errore, poiché se è pur vero che con la «cultura non si mangia» (cit. Tremonti), è altrettanto vero che è difficile guarire dal complesso di inferiorità che la destra ha sempre nutrito verso la sinistra.

Il problema è semmai un altro: se si sono liberate parecchie poltrone tra musei e altre prestigiose istituzioni, i nomi che il governo ha da spendere in questo campo sono sempre quelli: Sgarbi, Veneziani, Giordano Bruno Guerri, la new entry Stefano Zecchi… finiti i quali si comincia a raschiare il fondo del barile, ovvero si assoldano i giornalisti dei quotidiani di destra anche per incarichi su cui hanno scarse competenze, come nel caso della nuova commissione per i finanziamenti al cinema italiano.

E veniamo al pasticcio della mostra-ossessione sul Futurismo (sulla quale, a puntate, il Giornale dell’arte sta pubblicando l’inchiesta di Guglielmo Gigliotti, ndr). L’idea è venuta a Sangiuliano dopo aver letto sul Tempo, a firma di Gabriele Simongini, la recensione di un volume di inediti boccioniani a cura di Alberto Dambruoso. Simongini – incaricato di curare l’esposizione che si sarebbe dovuta inaugurare alla Galleria nazionale d’arte moderna di Roma il 30 ottobre – chiama come co-curatore Dambruoso.

Osanna (direttore generale dei musei) manda un invito ufficiale a far parte del comitato scientifico a esperti come Salaris, Carpi, Berghaus, Scudiero, Duranti, Baffoni, Notte e Lista. Tutti accettano e iniziano a lavorare senza – a eccezione di Simongini – essere contrattualizzati. A luglio però vengono esautorati, poiché il ministro, senza consultarli, opera tagli al budget e al numero delle opere (ridotte da 650 a 350).

Il 17 maggio, inoltre, Merlino (capo della segreteria di Sangiuliano), chiede a Dambruoso – malgrado sia l’ideatore del progetto e abbia richiesto il prestito di opere a musei, istituzioni e collezionisti – di fare un passo indietro a causa di voci infamanti sulla sua attività di esperto di Boccioni. Ma il critico risponde che la sua nomina è stata formalizzata da Osanna e chiede che venga motivata la sua esclusione per iscritto. A distanza di oltre tre mesi, tuttavia, non ha ricevuto risposte. È notizia di ieri, invece, che l’inaugurazione sia stata rimandata al 2 dicembre. Salvo ulteriori problemi.

Le rogne per la galleria nazionale non finiscono però qui. Domani alle 18 ci sarà la presentazione del libro di Italo Bocchino dal titolo Perché l’Italia è di destra – Contro le bugie della sinistra, alla presenza dell’autore e di La Russa. 40 dipendenti hanno inviato una lettera alla direttrice Maria Cristina Mazzantini in cui, tra l’altro, scrivono che mai in passato era stato organizzato un evento caratterizzato da tanta «connotazione provocatoria» e con «un intento palesemente propagandistico», non escludendo il ricorso «a forme di protesta atte a contestare l’utilizzo di un luogo pubblico a fini di parte e a difendere il ruolo democratico che un museo dello Stato non dovrebbe ipotecare per nessun motivo».

Mentre Buttafuoco è tutto felice di essere entrato nel «salotto buono» della Biennale, anche se gli è toccato battezzare la prima esposizione del curatore «queer», un altro intellettuale da anni vicino a Forza Italia come Luca Beatrice è stato nominato mesi fa presidente della Quadriennale, pare interrompendo la collana editoriale inaugurata dal suo predecessore Gian Maria Tosatti (mentre era ancora in carica), il quale se ne è lamentato in una lettera aperta, apparsa sul sito de Il Giornale dell’arte, poi misteriosamente sparita.

E al Maxxi? L’era post-Giuli è iniziata ma intensificando la linea dandy-destrorsa: da domani fino al 6 ottobre sarà possibile compiere una VR e AR experience incrociata. Con un linguaggio poco chiaro, infatti, il comunicato annuncia che: «I visitatori del Vittoriale, indossando occhiali di realtà aumentata, possono vedere i ‘gemelli digitali’ dei visitatori del Maxxi sovrapposti all’ambiente reale, come se fossero presenti fisicamente.

Allo stesso tempo, i visitatori del Maxxi, attraverso visori VR, si trovano immersi in una riproduzione digitale fedele della stanza del Vittoriale, potendo interagire con l’ambiente virtuale e con quelli fisicamente presenti nel Vittoriale». Tutto molto innovativo, ma ci si chiede come mai il maggior spazio italiano dedicato all’arte contemporanea si debba gemellare con il novecentesco museo di D’Annunzio e non con un suo omologo europeo, derogando ancora una volta dalla sua mission: esplorare l’arte del XXI secolo.

E allora forse sarebbe il caso di puntualizzare, una volta per tutte, che a rivalutare il Futurismo negli anni ’70 sono stati storici dell’arte di sinistra quali Maurizio Calvesi, Maurizio Fagiolo dell’Arco ed Enrico Crispolti; che a sdoganare negli anni ’80 la stagione dei telefoni bianchi e a realizzare volumi e retrospettive su autori considerati collusi con il Ventennio come Blasetti sono stati storici del cinema di sinistra come Lino Micciché e Adriano Aprà.

Dunque, sì, è vero, per decenni in Italia c’è stata un’egemonia culturale di sinistra. Per quale ragione? Semplicemente perché la cultura di destra è un’illusione ottica. E, del resto, per usare le parole del vate Sgarbi che ha da poco pubblicato il volume Arte e fascismo, «nell’arte non c’è fascismo, nel fascismo non c’è arte», concetto su cui imbastirà la sua lectio all’hotel Quirinale sabato 5, in occasione del convegno sull’«Italia dei conservatori» ad opera della Fondazione Tatarella e Nazione Futura. Più chiaro di così.

BRUNO DI MARINO

da il manifesto.it

Foto di cottonbro studio

categorie
Arte e mostre

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