Tutto si trasforma, nulla si distrugge. Perché la materia muta, si articola, si disarticalo, si separa, si ricongiunge. I processi naturali, chimici e biologici sono oggetto di indagine della scienza. I processi più mestamente (e miseramente) umani, politici e sociali sono invece materia di studio degli storici, dei sociologi, degli antropologi e di tutti coloro che, al di là della specializzazione in cui si sono cimentati nel corso della vita, vogliono provare a capirne un po’ di più delle bizzarre bislaccherie dei trasformismi di movimenti, partiti e, nel più vasto ambito delle controversie ideali, di una altezza della dialettica che spesso rasenta la bassezza del suolo.
Quante volte si è sentito dire, ripetere a voce e per iscritto che un determinato periodo della Storia è morto e sepolto. Oppure che un certo carattere, sempre di quel periodo, è archiviato, consegnato agli annali, passato nel passato e quindi buono soltanto per essere oggetto, appunto, di indagine e di studio accademico, oltre che scolastico-civico per la preservazione della memoria… Si è sentito dire tutto questo molte, tante volte. E, nella maggior parte dei casi, si tratta di un esercizio retorico che serve per evitare di fare i conti col passato, soprattutto se riguarda passaggi veramente epocali di un popolo e, quindi, di un moderno concetto di “nazione“.
Luciano Canfora infrange il mito della morte definitiva dei moderni movimenti che hanno innervato il Novecento e, in particolare, del fascismo. Lo fa con un pamphlet che si legge tutto d’un fiato. Veloce e rigoros al tempo stesso nel descivere attori, atti, protagonisti, trame oscure e colpi di Stato, segreti o alla luce del sole, che si sono succeduti in un ritmo così accelerato da non permettare mai di affermare una soluzione di continuità tra la sconfitta del regime di Mussolini e la continuazione dell’ideologia criminale lo ha ispirato (insieme a tanti bei soldoni del padronato di allora) nel dopo Seconda guerra mondiale.
“Il fascismo non è mai morto” (Edizioni Dedalo, 2024), non è il ripercorrere eventi salienti del post-fascismo per dimostrare che è stato presente nella storia del secondo Novecento nonostante la sconfitta sia del regime totalitario mussoliano sia di quello nazista hitleriano. E’ un esercizio di approfondimento dei motivi per cui le premesse di una sopravvivenza ideale e politica addirittura di quello delle origini si è rinvigorita nel momento in cui in Italia la Repubblica prendeva sostanza, diventava realtà costituzionale, sociale, civile e morale. E queste premesse si antepongono ai fatti che hanno determinato la caduta della pagina più cupa del regime: la repubblichina di Salò.
Il Movimento Sociale Italiano – osserva con acutezza Canfora – ne mutuò il nome e ne fece un programma: essere un partito che approfittava dei diritti democratici per trasformali in un privilegio per sé stesso; la libertà che loro, come pre e post-fascisti non avrebbero mai dato ai loro avversari, la strumentalizzavano per tentare, lungo un arco di tempo che attraverserà praticamente tutta la prima parte dell’esistenza della Repubblica democrata fondata sul lavoro e nata dalla Resistenza, per sovvertire la stessa, per ripristinare parole d’ordine e consorterie degne dei colonnelli greci, del franchismo, di quel che rimaneva e rinverdiva dei passati sodalizi tra Roma, Berlino, Madrid e magari anche Tokyo.
Quando al capitolo terzo, l’esimio storico ci invita a “sfogliare l’atlante“, ci si accorge che Mussolini ha inventato qualcosa che già c’era, insita nei rapporti di potere, nelle perversioni delle pulsioni demagogiche e maniacali di una voglia di megalomania che solo il potere regala a chi passa, nel giro di una notte, dall’essere socialista neutralista a socialista interventista durante la Prima guerra mondiale. Il collante primo che federa i potenziali fascismi di tutto il mondo è anzitutto la primazia etnica, nazionalista; l’esaltazione già razzista di una maggiore intelligenza, di una superiorità che, oggi, potremmo definire “occidentale” rispetto ad un mondo in larga parte ancora coloniale.
L’Europa aveva conquistato il pianeta e lo aveva assoggettato. L’Asia era un subcontinente puntinizzato da tante colonie sparse sulle coste dell’ex impero cinese, mentre l’India era britannica, l’Indonesia olandese, l’Indocina francese, le Filippine statunitensi. Resistevano, indipendenti, soltanto la Persia in Medioriente e, nell’estremità del grande mondo molto sconosciuto, per l’appunto una Cina, un Giappone e un Siam in cui la penetazione occidentale si faceva comunque sentire. Questi europei bianchi, che fascisti non erano, portavano comunque con sé le tradizioni, la cultura, la religione, gli usi e i costumi di un mondo che consideravano un modello per gli altri.
Il fascismo di Mussolini, scavalca certamente a destra il liberalismo capitalista coloniale. Lo fa, sganciandosi da un primo istinto socialisteggiante (di cui Canfora riporta con dovizia di particolari nell’appendice i testi comparsi su quello che allora ancora si definiva “il quotidiano dei combattenti e dei produttori“, ossia “Il Popolo d’Italia” (che i missini sostituiranno con “Il Secolo d’Italia“); e soprattutto si accinge a divenire regime nel momento in cui passa da movimento di protesta a forza che, non si candida, ma si impone al governo della nazione con la marcia su Roma.
Quel fascismo primitivo, ma tutt’altro che ingenuo, che viene recuperato necessariamente dalla RSI fin dai suoi primi giorni di tutela da parte del Terzo Reich, nel momento in cui Mussolini e famiglia sono stati fatti riparare a Monaco di Baviera e trasmettono i primi nuovi ordini dalla radio tedesca, scisso dalla sua compromissione con la monarchia, ma tutt’altro che riluttante a riprendere la via della separazione dal grande padronato e dai suoi interessi, ricompare nel dopoguerra. E riappare nei tentativi di attualizzazione neofascista che alcuni protagonisti dell’oscurantismo repubblichino hanno provato a mettere in pratica.
Così, se la sconfitta del regime è certa, altrettanto incerta è la decretabile fine del fascismo come movimento politico, come crimine che si fa ideologia di massa prima e partito-Stato poi. Canfora pone nei “quesiti elementari” questa proprietà negata da molti ed edulcorata da tanti, di riconoscere nel MSI un soggetto politico dichiratamente, oltrettutto, fascista. Se Mussolini è maestro di Hitler mentre il movimento völkisch involve nella tragedia nazionalsocialista, il MSI è erede politico, immorale e incivile di epifenomeno che gli si staglia dietro come ombra complessa che le luci della neonata democrazia mettono in evidenza, ma che non riescono ad eliminare.
Si potrà dire che la forza della Repubblica è questa: permettere anche a chi la detesta di stare nell’agone politico e sociale del Paese. Oppure si potrà affermare che si tratta di una debolezza intrinseca della democrazia, di una sua caratteristica contraddittoria che, pur tuttavia, necessita di essere tale, altrimenti il difettamento di un insieme di valori principierebbe proprio da lì e permetterebbe agli avversari e ai nemici della libertà di trovare un elemento di confutazione, una ragione di evidenza nell’accusare i democratici di non essere per davvero quel che realmente dicono di voler essere.
Dal 1946 ad oggi, prima la Repubblica e poi la sua Costituzione, hanno dovuto difendersi da accuse come queste, portate avanti da chi ha sempre avuto in spregio qualunque libertà e diritto civile, qualuque libertà e diritto sociale. E, in un certo qual modo, se la democrazia ha potuto rivendicare una sua peculiarità, proprio di ciò si è trattato: subire persino la presenza dei neo-post-fascisti nel nome della libertà di espressione che veniva cavillosamente protetta da azzeccarbugliate nei meandri del diritto, tra rigidezza costituzionale e tolleranza nell’applicazione delle norme finali.
Ma il fascismo ottiene un salvacondotto nel dopoguerra, come movimento ideale che rivendica radici più sommerse rispetto a quelle evidenti delle compromossioni con monarchia, industrialismo e poteri economici più o meno leciti, ben prima della sua rovinosa caduta nell’aprile del 1945. C’è, in sostanza, nella considerazione anche storica del fenomeno – almeno da parte dell’analisi di Canfora – una necessità di comprendere come mai persino gli inglesi, che erano, insieme alla Francia, fin dai primi del Novecento, riconosciuto come la patria del liberalismo e della democrazia moderna, videro in Mussolini una sorta di speranza per l’Europa.
Ancora più determinante su questo piano è la valutazione delle amministrazioni statunitesi. La benevolenza che viene accordata al regime dell’ex direttore de “L’Avanti“, è soprendente. Il motto anglosassone “legge e ordine” sembra trovare nella dittatura italiana la sua concretizzazione. Viene da domandarsi se, mentre il regime dei colli fatali di Roma si affermava e prendeva il potere in ogni ambito dello Stato, divenendo esso stesso partito-Stato, inglesi e americani avessero piena contezza di quello che signficasse in Italia essere fascisti e, soprattutto, non esserlo.
L’antifascismo, infatti, viene sovente associato ad una pervasività bolscevica in una penisola fragile, in cui il capitalismo teme i rossi e, più ancora dell’estremismo rivoluzionario comunista, quello che prende sembianza politica ed organizzativa con la fondazione del partito al Teatro San Marco di Livorno, nel freddo e umido gennaio del 1921, ha paura del riformismo turatiano. Lo dicono le cronache di allora: la borghesia ha una ossessione per l’impatto che avrebbero quelle modificazioni di orario, di salario, di rapporti produttivi che il PSI vorrebbe introdurre.
La somiglianza con alcune rivendicazioni dei Fasci Italiani di Combattimento è sorprendente. Ma sorprende fino ad un certo punto, perché Mussolini viene da quella storia, è un socialista che ha fallito nel momento in cui ha provato a coniugare l’idea con la sfrenata ambizione personale. Non potrà essere il capocorrente nel socialismo italiano; diventerà il capobastone delle squadracce che infesteranno, di lì a poco, le città e le campagne, devastando le sedi sindacali, le case del popolo, le federazioni dei partiti non fascisti, compreso il centro popolare di Don Sturzo.
Se nel dopoguerra i fascisti possono richiarmarsi a quelle origini, rivendicando persino una sorta di accredito internazionale, proprio da parte di quei paesi che ne avrebbero combattuto le scelte di politica estera ad iniziare dalla seconda metà degli anni ’30, ciò è dovuto ad una carambola di contraddizioni che, oggettivamente, è l’ambiguità stessa della proposta politica mussoliniana ad incarnare in sé. Diversamente dalla crudezza del linguaggio hitleriano, quando il capo del fascismo si propone al mondo, almeno fino al primo decennio di dittatura sull’Italia, gioca la carta della rispettabilità che sarebbe dimostrata dagli ottimi rapporti con il mondo delle imprese.
I rigurgiti nazionalisti del dopoguerra, senza dubbio, consentiranno un’agevole ripresa della protesta di matrice neofascista nei confronti del languire delle democrazie, nel loro essere espressione di un fallimento socialdemocratico che non riesce a garantire quel benessere sociale che aveva promesso e che era così necessario soprattutto dopo la catastrofe bellica. Quello che Luciano Canfora definisce “il caso tedesco” è, al pari dei raffronti preguerreschi con Inghilterra e Stati Uniti, un paradigma che si forma mentre due società tedesche si fanno riconoscere in quanto espressione l’una dell’Occidente e l’altra del socialismo reale dell’Est.
Le dinamiche della Guerra Fredda attraversano perpendicolarmente la Germania, divisa dal 1949, separata nettamente tra instaurazione democratico-capitalista ad Ovest e rigore ideologico e sociale del regime pseudo-comunista dell’Est. Il crollo, nel 1989, del Muro di Berlino sancirà la fine del bipolarismo e aprirà le porte a tutte le insufficienze di entrambe le costruzioni socio-politico-economiche. I danni del liberismo e quelli del dogmatismo sovietista permetteranno alle destre di rigurgitare contro la modernità e contro la riunificazione tedesca nell’ambito di quella scoperta per le sinistre che sarà il mantra dell'”europeismo“.
Non si può certamente dire che il neonazismo venne indotto scientemente a diventare protagonista della vita politica e sociale della nuova Germania, ma una eterogenesi dei fini è quanto meno il minimo senso di colpa che si possa addossare compiutamente nei confronti di quei governi che pensarono ad un rinverdimento democratico continentale soltanto in chiave monetaria, tralasciando ogni compromesso tra capitale e lavoro, preparando l’Europa a divenire un affare mondiale, senza competizione alcuna con l’unico polo economico rilevante rimasto: gli Stati Uniti d’America.
Il nord-atlantismo, infatti, è una delle coperture più inquietanti che il neofascismo ha avuto, almeno storicamente parlando, nel corso della formazione delle nuove classi dirigenti nazionali. Si pensi soltanto a “Gladio” e ai servizi segreti deviati. Ai collegamenti tra Washington e Roma per il tramite delle trame oscure, di logge massoniche come la P2: nacque da lì una stagione florida per un neofascismo che intendeva destabilizzare la democrazia rappresentata dal patto costituzionale e difesa, senza tema di smentita, da quasi la totalità del democristianesimo, dai socialisti e dai comunisti.
Il fascismo, sconfitto il 25 aprile 1945, non mai morto. E’ stato, per così dire, clonato e riproposto politicamente nei movimenti e nei partiti: dall’MSI al Front National, dalla Falange spagnola; dalle dittature portoghesi e greche a riedizioni di croci frecciate e sette persino esoteriche che riprendevano i sogni himmleriani di una origine divina della purezza razziale. Deliri, certamente, ma anche precisi disegni politici che si connettono nuovamente con fette di capitalismo interessato alla destabilizzazione permanente della coscienza critica delle masse e delle potenzialità di riscossa sociale.
La vicenda argentina, con l’elezione di Javier Milei, dovrebbe essere un ulteriore insegnamento in questo senso. Canfora ci offre uno spunto di riflessione molto esaltante. Non deve deprimere pensare che, in fondo, questo ciarpame della storia umana non sia mai veramente finito del tutto. E’ solo con la trasformazione sociale che si può mettere fine ad un sottoprodotto di una politica ruffiana e cialtrona, trasformista e bugiarda all’ennesima potenza pur di dominare e avere il potere. La sinistra italiana, europea e mondiale se ne deve rendere edotta. E se lo sa, allora si adoperi in questa direzione: per far morire il fascismo una volta per tutte.
IL FASCISMO NON È MAI MORTO
LUCIANO CANFORA
EDIZIONI DEDALO, 2024
€ 13,00
MARCO SFERINI
10 aprile 2024
foto: particolare della copertina del libro
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