Il fantasma della borghesia del Nord si aggira per la Lega

Se nel settore progressista della politica italiana grande è il disordine sotto il cielo, tra fasi costituenti e ricostituenti che spaiano piuttosto che appaiare, se il Terzo polo si...

Se nel settore progressista della politica italiana grande è il disordine sotto il cielo, tra fasi costituenti e ricostituenti che spaiano piuttosto che appaiare, se il Terzo polo si muove nell’ottica di un rifacimento di una prospettiva neocentristra, anche a destra non è che navighino in ottime, chiare, fresche e dolci acque. In particolare qui ci si riferisce a quanto avviene nel partito che più di tutti, ancora maggiormente rispetto a Forza Italia, ha patito la sentenza delle urne di fine settembre: la Lega di Salvini.

Nello specifico è bene dire che è proprio quella del Capitano che pare non reagire più agli stimoli della propaganda populista e nazionalista del suo segretario.

La linea inagurata con la nuova stagione post-padana, fatta di italianità a tutto tondo, quindi la Lega senza “Nord” ma con ancora Alberto da Giussano a reggere lo spadone della libertà, è intaccata dalle poche conquiste programmatiche portate a casa con la legge di bilancio, con le smentite fatte dallo stesso Giorgetti sulla campagna anti-pos per pagare un caffé al bar, nonché, fatto ancora più imporatnte, da quel “Comitato del Nord” messo in piedi dal padre nobile del leghismo.

Proprio Umberto Bossi sta, insieme ad una schiera di compatti fedelissimi, provando a mettere in discussione il regno di Salvini, la mutazione genetica della Lega e quell’ “abbandono dell’identità” nordista che era il carattere fondante di un partito dedito alla tutela degli interessi delle classi agiate del settentrione e, su scala regionale (o nazionale, come intendevano i leghisti secessionisti d’un tempo), più propriamente dell’asse Torino – Milano – Venezia.

La stella del sovranismo salviniano, il progetto della edificazione di una Lega nazionale erano parsi a qualche commentatore rivnedire i progetti tentati negli anni ’90 del secolo scorso con improvvisazioni sincretiche tra il federalismo teorico (molto poco pratico) di Gianfranco Miglio e le esigenze di espansione politica del Carroccio oltre la linea del Po (la poi misconosciuta “Lega Italia Federale” o “Lega dei popoli“).

Niente di più antitetico tra quei due tempi ormai troppo separati dalle vicende intercorse nel frattempo. La caduta in disgrazia di Bossi aveva trascinato la Lega Nord in un baratro elettorale che nemmeno l’arrivo di Maroni con la parola d’ordine congressuale “Prima il Nord” (e non “Prima l’Italia” o “Prima gli italiani“) era riuscito a contenere.

Il contenitore economico europeo, del resto, imponeva ai padroncini del Nord-Est di confrontarsi con mercati sempre più ampi e di lungo raggio: la via della seta di nuova ispirazione confliggeva con quella richiesta di dazi doganali da mettere sulle esportazioni cinesi verso l’Italia che, un po’ da sempre, era stato uno dei cavalli di battaglia del protezionismo commerciale padaneggiante. Dal “sono lombardo e voto lombardo” al “sono padano e mangio padano” il passo fu breve.

Ma dalle ampolle del dio Po ad un nazionalismo regionalista che escludeva completamente il Mezzogiorno, nonostante l’intento maroniano di riformare una Lega Nord che aveva esaurito la sua spinta propulsiva originaria, tutta antimeridionalista e contro il “centralismo romano” (vista la partecipazione a tutti i governi del centrodestra da che se ne ha memoria…), non venne un nuovo corso che mettesse insieme spirito delle origini e adeguamento al contesto politico, sociale ed economico dell’Italia che veniva investita dalla baraonda grillina, dalla crisi del renzismo e dalla stagione delle nuove destre.

La torsione neonazionalista imposta dal rampantismo salviniano ha riempito le piazze per qualche tempo. Poi, come spesso accade, gli italiani si sono disillusi e hanno iniziato a guardare altrove. Il melonismo oggi imperversa, regge il governo del Paese e si supporta delle debolezze dei suoi alleati storici.

Se per Forza Italia la crisi strutturale è annosa e ampiamente data per acquisita, per la Lega è una nemesi quasi storica: un ritorno ai drammi del passato, una ciclicità che, questa volta, pare favorire chi criticò aspramente l’abbandono della dimensione regionalista, del federalismo separatista, del mitteleuropeismo e dello sguardo tutto puntanto ai modelli di Stato elvetici.

La letteratura sul fenomeno leghista è così smisurata da perdervisi. Eppure, qua e là, se si legge anche un po’ tra le righe, si può arrivare a comprendere come tutto questo filone di destra abbia avuto un ruolo egemone nella rappresentanza politica delle classi medie e borghesi di un Nord che, a partire dalla grande industria, invece guardava all’altro fenomeno politico nato dal terremoto tangentopolizio: Forza Italia.

La funzione federatrice tra le destre secessioniste nordiste e quelle nazionaliste meridionali (Alleanza Nazionale di Gianfranco Fini) l’ha esercitata il partito berlusoconiano per più lustri. Poi quella saldatura tra le borghesie del Nord e del Sud è saltata con l’oscuramento della stella del Cavaliere nero di Arcore e con l’avvento dei tecnici a Palazzo Chigi.

Fatta questa ricostruzione storica, piuttosto velocemente e quindi con tutti i limiti della sintesi mnemonica, ci si pò porre una domanda: ma davvero c’è spazio oggi per una riproposizione della “Lega Nord“?

Ossia: vi è uno spazio politico, sociale e un referente coi tratti della classe dirigente imprenditoriale che abbia voglia di affidarsi ancora all’idea del particolarismo regionalista, dell’autonomia spinta, ferocemente radicale delle comunità locali come riforma quasi istituzionale (magari passando per il viatico calderoliano dell'”autonomia differenziata” che non spiace nemmeno tanto a dirigenti del PD pronti a fare il segretario di quel che ne rimarrà) quale base di una rivalutazione degli interessi di classe?

I padroni del Nord-Est, quelli delle industrie casearie, i coltivatori, i piccoli padroncini di aziende locali è possibile che rivedano nella politica del “nordismo” la dimensione utile a crescere tanto dentro l’economia nazionale quanto in quella continentale? Non si tratta di domande a cui deve essere data una risposta di prammatica, supportata da una scrollata di spalle, affermando di non poter indovinare o sapere.

Si tratta di tentare uno scatto intuitivo, una analisi del contingente. Soprattutto in relazione all’ondata di conservatorismo reazionario che si è proposta all’elettorato attraverso il progetto di Fratelli d’Italia e che, col supporto di quasi dieci milioni di elettori (più quelli degli alleati claudicanti), oggi siede a Palazzo Chigi.

Un riequilibrio delle percentuali tra una Lega Nord di nuovo modello e il partito meloniano è tutt’altro che vicina, anche perché la Lega di Salvini è ancora lì, al suo posto. Fiaccata, depressa, non soddisfatta dell’azione nel governo, dei risultati che non riesce a portare a casa, ma è per ora quel partito nazionale che cozza frontalmente con il “Comitato del Nord” di Bossi. I seguaci di Bossi, per ora appena un migliaio, puntano ad essere il «Voltaren della Lega. Non a distruggere ma a ridare nuova vita e nuovo corso» al partito.

Se si vada verso una scissione, con tanto di ricorsi giudiziari su appropriazioni indebite o meno di simboli storici, è, questo sì, un indagare nell’incertezza dell’incubo. Una Lega era già troppo per il Paese, due sarebbero la farsa che si trasforma in tragedia. I bossiani puntano ad una attenzione socio-economica delle esigenze del Nord e solo del Nord. Si rimette al centro dell’azione politica, ed anche della pseudo-ideologia nata con l’autonomismo venuto a galla alla fine del secolo scorso contro la corruttela e il “centralismo” di “Roma ladrona“, il punto di vista di una parte dell’Italia contro un’altra parte.

Quanto tutto questo possa reggere con la prova di governo attuale è difficile dirlo. Rimaniamo nel campo delle ipotesi, perché lo scontro fra i modelli di Lega è verticale, non ci sono grandi tentativi di mediazione al momento: almeno non fino a quando Salvini rimarrà segretario federale del partito. Ed è anche presto per dire cosa faranno i cosiddetti “governatori” regionali (Zaia, Fedriga, Fontana). Al momento possono oscillare tra la controriforma di Calderoli, l’azione di Giorgetti nella manovra finanziaria, le incertezze di Salvini e i tentativi di resuscitare il padanesimo di Bossi.

Ce ne è abbastanza per stare a vedere. Almeno per chi ha una certa posizione da difendere e anche da far valere.

La posizione di partenza dei bossiani è di forza soltanto se si fonda sulla critica elettorale, sul dato disastroso delle urne, sulla trasmigrazione dei voti in massa al partito di Giorgia Meloni, verso un astensionismo non sottovalutabile e con un recupero di una percentuale dei consensi da parte del M5S.

Tre milioni di voti persi in un colpo solo producono una debolezza cronica che finisce col non mostrare la fine della sua avanzata. Ed è proprio su questo punto che si discute dentro il comitato organizzato da Bossi: recuperare un ruolo di lotta e di governo, provando ancora una volta a sedurre le masse nordiste con argomenti egoistici, con una autoreferenzialità a tutto tondo. Dal territorio all’economia, dalla cultura alla politica nazionale ed europea.

Se la Lega non intercetta più il consenso degli industriali del Nord e perde gran parte del voto popolare, forse è proprio dalla vecchia ricetta che si deve ripartire. Un’altra proposta, niente affatto nuova, di interclassismo di diritti e doveri nettamente opposti fra loro. Un ennesimo inganno per i più deboli e disagiati di trovare, a destra, quelle soluzioni ai loro problemi che la sinistra, al momento e da troppo tempo, non riesce ad interpretare, gestire e provare a risolvere.

MARCO SFERINI

4 dicembre 2022

foto: screenshot Wikipedia

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