Non esiste un governo che non abbia colpe, che non sia inopportuno per una larga parte della popolazione. Non esiste perché il governo è una contraddizione evidente dell’incapacità umana di autodeterminarsi e autogestirsi. L’anarchia, l’assenza di qualunque potere verticale, l’affermazione di una reale condivisione orizzontale di ogni decisione da prendere in comunità, sarebbe la migliore realizzazione di una prospettiva di futuro per questa umanità sempre meno capace di prendere coscienza del disastro sociale e ambientale in cui è immersa fino ed oltre il collo.
Nessun governo potrà mai realizzare un paradiso sociale in terra, ma nemmeno a mezzo metro da terra. Per questo è veramente socialmente distopico poter anche solo pensare che le soluzioni dei problemi concreti le possa dare un esecutivo, un pugno di donne e uomini che, pur su delega diretta o indiretta popolare, devono occuparsi di problemi trasversali facendo uso del potere che, per sua natura, è parziale, impositivo (e non solo fiscalmente), disconoscitore naturale di alcune istanze per privilegiarne altre e per favorire quei settori che lo sostengono e lo nutrono mediante il consenso elettorale ed anche il tributo finanziario a forze politiche che fanno parte di una maggioranza.
Sono considerazione veramente oggettive, che non dovrebbero sfuggire anche ad una blanda osservazione dei fatti che avvengono in ogni paese del mondo. Tanto più che i governi sono espressione e propaggine sovrastrutturale di un regime economico dominante e globale, che si differenzia da continente a continente sulla base della nazione dominante, che prevale sulle altre o sugli assetti e le nuove vie del commercio planetario che si intersecano fra loro.
Gli assi di sviluppo del capitalismo liberista sono interattivi e, al contempo, anche divergenti, concorrenziali: l’imperialismo si mostra in tutta la sua virulenza finanziaria e monetaria ben oltre i vecchi parametri con cui veniva valutato anche soltanto venti anni fa.
La velocità espansiva del capitale è tanta e tale grazie a tecnologie che hanno accelerato l’effetto moltiplicatore delle ingiustizie ad ogni longitudine e latitudine del globo. Dalla fine della Seconda guerra mondiale, appena mezzo secolo dopo, negli anni ’90, l’evoluzione sociale è sempre stata un passo indietro a quella scientifica – comunque piegata alle “necessità” del mercato – ma, oggettivamente, i due fenomeni si riconrrevano e a volte accadeva che le istanze del lavoro dettassero l’agenda alla riqualificazione degli impianti, spingendo i padroni ad ammodernare le strutture, creando così un (in)volontario compromesso tra giustizia sociale e competizione capitalistica.
La stagione della creazione degli “stati-sociali” in tanti paesi dell’Est sotto l’occhio vigile di Mosca, ma pure nel campo occidental-liberale tanto europeo quanto africano e mediorientale, è stata forse l’unica parentesi di contenimento forte di una recrudescenza del regime dei profitti che stava provando ad oltrepassare la soglia, facendosi largo con guerre atroci e conflitti decennali (il VietNam fra tutti). La crisi dei blocchi contrapposti (USA e URSS) ha aperto una nuova linea di demarcazione della storia dell’umanità.
Soltanto oggi, a trent’anni di distanza, l’onda lunga dell’inviluppo capitalistico ci mostra tutti gli strascichi di una serie di violenze di massa, contro le masse popolari, che sono servite a ridisegnare le strategie geopolitico-economiche delle cosiddette “potenze emergenti“: la Cina in primis, la Russia di Putin in secundis e, molto nel mezzo, anzi in una palude tra due alte montagne, una Unione Europea che flirta tanto ad Ovest quanto ad Est per giocarsi, alternativamente, seguendo l’andamento delle borse, il proprio export.
Noi malediciamo o benediciamo i governi: pensiamo che stando in un esecutivo si possa, sia prima, durante e dopo, dire alla gente che si apre una nuova stagione, che finalmente vi sarà quella giustizia sociale di cui tanti sentono parlare ma non sanno poi nemmeno bene cosa realmente significhi. Giustifichiamo a volte, nel nome della lotta contro le peggiori pulsioni sovraniste e neofasciste, alleanze con forze politiche che “naturalmente” si sono votate alla rappresentanza degli interessi di classe: ma non di quella classe sociale che vorremmo poter rappresentare noi. L’esatto contrario o, quanto meno, un ibrido tra ceto medio e grande, alta finanza.
Le categorie interpretative novecentesche, la geopolitica e soprattutto la lente sociologica sono da aggiornare non nel nome della governabilità, della rispettabilità da acquisire come sinistre presso chi detiene veramente i cordoni delle borse e gioca con le vite di tutte e tutti noi tramite finte politiche sociali, finti benecomunismi istituzionali.
Occorre rimettere al centro la contraddizione massima (capitale – lavoro) e accettare i “fronti unici” solo esternamente, senza farsi coinvolgere in operazioni di apparente ottimizzazione del panorama politico e sociale che, infatti, successivamente si rivelano (e si sono quasi sempre rivelati) precursori di strette economiche che si riversano sui ceti più fragili, con meno diritti e pochissime garanzie.
Se i governi possono fare ben poco per risolvere i veri problemi dei popoli e mettere mano ai grandi temi irrisolti del nostro tempo, tanto meno può fare un atteggiamento governista, il mito della governabilità a tutti i costi come grimaldello e leva attraverso cui sollevare il mondo. I governi sono sistemici, la voglia di governare è, per una certa finzione di sinistra, un vero e proprio orgasmo intrattenibile. E niente più.
MARCO SFERINI
14 luglio 2021
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