L’evidenza è razionale? O, per meglio dire, ciò che risulta evidente lo è a prescindere dalla ragione, oppure lo è in quanto la ragione lo ritiene tale? Il ricorso al concetto di “oggettività” rimanda all’essenza stessa della materialità delle cose, a quell'”obiectivus” del latino medievale che, in effetti, ci parla proprio dell’oggetto che esprime questa caratteristica universale o, per quanto ci riguarda, umanamente universale.
Prima fra le regole del metodo cartesiano, quella dell’evidenza concerne la chiarezza e distinzione della realtà, oltre ogni sfumatura, oltre ogni altro filtro possibile, lì dove il dubbio ha cessato di insinuarsi, è subentrato il pensiero e, di conseguenza, la certezza di trovarsi di fronte ad un qualcosa di ininterpretabile, appunto di “evidente“. Nella particella intensiva che precede il participio presente del verbo “videre” sta, in fondo, la particolarità dell'”al di fuori di“.
Gli appassionati di storie criminali e telefilm e serie giudiziarie avranno sentito correre e ricorrere spesso la locuzione “al di fuori di ogni ragionevole dubbio“; il che significa, se tradotto in altri termini, “in modo del tutto evidente“, di chiarissima inoppugnabilità, senza tema e possibilità, quindi, di smentita. Ecco che l’evidenza è l’esatto contrario dell’arrovellamento fumoso della dubitabilità.
Dove cessa di esistere il dubbio, prende slancio il pensiero chiarificatore che è, sempre secondo René Descartes, la premessa e la coevità al tempo stesso dell’essenza oggettiva di ciò che ci si staglia innanzi in un dato momento. Per scongiurare ogni possibile tentazione scettica, Cartesio adotta una metodologia del dubbio perché, ne è ben consapevole, la realtà sovente ci inganna e non ci permette di essere oggettivi e razionali.
L’esempio più classico è quello del bastone immerso nell’acqua: a prima vista appara come spezzato; ma in realtà non è così. Le illusioni ottiche sono tra le principali cause di errore nell’osservazione dei fenomeni naturali: miraggi nel deserto, allucinazioni. Persino il dormiveglia, a volte, è all’origine di fraintendimenti tra sogno e realtà, tra onirismo e concretezza razionale. Cartesio non è uno scettico, ma sente il bisogno di sottoporre alla valutazione razionale anche il dubbio.
Riconosce quindi al dubbio la necessità di essere iperbolico, di eccedere, di esagerare, di oltrepassare i confini di quello che potremmo chiamare il “lecito razionale” che permette di costruire sulla roccia tutto l’impianto di un nuovo metodo di apprendimento dell’esistente e dei suoi fenomeni mediante la grande mente umana che arriva a conoscere con certezza ma che, tuttavia, può conoscere soltanto parte del tutto e non risolvere l’esistenza stessa, la vita, l’universo.
L’esistenza è premessa della pensabilità del tutto. Ma non è certezza della comprensione del tutto stesso. La parzialità, del resto, è insita nell’imperfezione umana, utilizzata da Descartes per le sue prove sull’esistenza di Dio che, contrariamente a noi esseri di questo mondo, sarebbe quella vera e sempre presente perfezione che noi possiamo concettualizzare, perché presente nella nostra mente come una sorta di platonica idea innata.
Oltre a qualche influenza platonica, ma molto, molto timida e velata, si fa sentire, nella gnoseologia cartesiana, un’eco della infinita diatriba dialettica tra imperfezione e perfezione come presupposto per la dimostrazione che un essere perfetto deve necessariamente esistere, altrimenti non avrebbe in sé tutti i caratteri che noi umani consideriamo imprescindibili per poter essere assolutamente perfetti.
Potremmo dubitare, razionalmente, anche di ciò, affermando che si tratta di elucubrazioni ascrivibili all’interpretazione che noi diamo della realtà, per cui, essendo la morte il contraltare della vita, a cui dobbiamo riconoscere tutti i limiti spaziali, temporali e fisici del caso, abbiamo stabilito che il vivere sempre, senza prima, durante e dopo, è una caratteristica appunto della perfezione.
Ma, se ci addentrassimo in questa discussione, pure affascinante, finiremmo con il convenire che si sta facendo un discorso piuttosto aprioristico, senza poter tenere conto dell’oggettività e dell’evidenza dell’esistenza di Dio a cui non possiamo razionalmente arrivare se non tentando le spiegazioni più intriganti fondate su un piano deduttivo che è destinato a rimanere prigioniero di un agnosticismo che è padre e padrone del dubbio (o viceversa…).
Pascal sarà piuttosto severo nei confronti di Cartesio e proprio a riguardo delle sue prove sull’esistenza di Dio. Tutti i torti non li aveva il filosofo che si convertì appena ventenne al giansenismo. Ma i pensatori di ogni epoca sono, per l’appunto, uomini e donne, umani con una mente che ricerca l’evidenza e, quindi, tenta di avvicinarsi alla inoppugnabilità della verità dei fatti, non riuscendo sempre a raggiungere questo ambizioso scopo.
Sarebbe però ingeneroso gettare addosso a Descartes la croce della presunzione della voglia di dimostrare l’esistenza di Dio con prove apodittiche fondate sul metodo razionalistico inaugurato come nuova era della filosofia occidentale. Non fosse altro perché la conduzione della ragione nei meandri della metafisica e del finalismo universale, della teleologia in quanto tale, è proprio oggettivamente difficile visto che non c’è nulla di più arbitrario se non l’ipotesi.
E l’ipotesi è, per sua natura, un dubbio che prova a risolversi nel confronto con altri dubbi e che, soltanto dopo aver scomposto i più grandi dilemmi in questioni minori, proprio come invita a fare Cartesio con la regola dell’analisi, riesce a diminuire progressivamente le opzioni, scartando ciò che è falso, ma non ciò che è ulteriormente dubitabile. Così procede anche la scienza: per dubbi, per tentativi, ma non a caso. Seguendo un filo logico, razionale, matematico.
La nascita del razionalismo cartesiano è il passaggio veramente storico da uno sguardo sull’essere ad uno sguardo dell’essere sul resto del mondo. L’essere in quanto soggetto pensante che, quindi, si pone delle domande e che in queste domande esercita tutto il “controllo” che ha sul pensiero. L’unico elemento su cui noi possiamo pienamente dominare, perché ci è impossibile non pensare e ogni concetto, ogni idea, ogni interpretazione del reale nasce nella nostra mente.
Da un confronto con la realtà, certo. Ma la capacità di elaborare i pensieri è, prima di tutto, una facoltà umana (e, forse, anche di altri animali senzienti che provano sentimenti come gioia, amore, empatia e ovviamente dolore, troppo dolore causato dall’antropocentrismo, dallo specismo) che deve – sostiene Descartes – indurci a dare un ordine alla conoscenza, al sapere, per continuare nell’opera di discernimento nella disarticolazione del reale che è razionale.
L’evidente, quindi, è ciò che non ci sembra, ma che è. Per arrivare alla considerazione ultima, oltre ogni ragionevole dubbio, che ciò che vediamo e sentiamo è tale e non può non essere altrimenti, dobbiamo fugare ogni possibile confusione, ogni confutabilità. Non c’è l’angoscia del dubbio propria dello scettico, la cui conclusione è l’inconoscibilità dell’esistente. Siamo tutti sufficientemente edotti del fatto che – come ci ripete Cartesio – possiamo tendere alla conoscenze del tutto, ma mai arrivarvi.
La parzialità ci contraddistingue, ma la grandezza cartesiana sta proprio nell’aver lasciato questo dilemma alla vecchia scuola filosofica dell’antica ontologia parmenidea. Avveduti dei nostri limiti oggettivi, perché non possiamo comunque utilizzare tutte le potenzialità della nostra mente razionale per accrescere sempre di più la possibilità di intuire e poi sapere il perché di un perché prima irrisolvibile?
La forza del dubbio metodico è proprio quella della decostruzione, del lasciare intendere pienamente ciò che resiste gli resiste e ciò che, invece, crolla sotto il confronto con l’interrogativo che si erge solennemente davanti al campo delle illazioni. Ecco che la “strumentalità” del dubbio è declinata in chiave utilitaristica: il mezzo e non il fine. Dubitare è come avere tra le mani gli strumenti per elaborare nuovi concetti e spingere la razionalità ad avanzare nella comprensione della vita, del mondo.
Se la ragione è il viatico per l’apprendimento dell’oggettività dei fenomeni, ancora più straordinario è per il razionalismo cartesiano l’aver compreso che tutte e tutti abbiamo la medesima capacità di ragionare e che, quindi, ci troviamo davanti ad una caratteristica universale dell’essere senziente umano. Una caratteristica che è introdotta, almeno filosoficamente parlando, dal dubbio pensato che incede verso il pensiero stesso e che, alla fine, è la dimostrazione del nostro essere, del nostro esserci.
“Penso, dunque sono“, ma anche “sono, dunque penso“. In tutti e due i casi, il pensiero e l’esistenza si compenetrano. L’uno è privo di senso senza l’altro: non si può immaginare una vita priva di pensiero e non si può immaginare il pensiero astratto dall’essenza materiale dell’esistenza. Durante la giornata noi possiamo fare mille cose: camminare, mangiare, riposarci, dormire, vegliare, giocare; possiamo essere in preda a mille stati d’animo, ma mai smettiamo di pensare. E quindi mai smettiamo di essere.
L’evidenza “prima“, dunque, è l’essere pensante che acquista un valore differente dalla materia inerte che, tuttavia, indubbiamente, esiste. Diventa dunque oggettiva l’affermazione dell’ontologia heideggeriana sull’esistenza che precede l’essenza? Attribuire veridicità all’esistenzialismo novecentesco sulla base di un razionalismo seicentesco sarebbe troppo azzardato e ingeneroso nei confronti tanto dell’uno quanto dell’altro filosofo. Quindi meglio non avventurarsi in questi giochetti.
Nonostante ciò, si può, proprio in virtù del metodo strumentale cartesiano, spostare l’attenzione su una evidenza dell’evidenza stessa: in pratica non vi è, in tutta la storia del pensiero e della scienza, una relativizzazione della possibilità di arrivare a gradi sempre maggiori di conoscenza. Il dubbio è e rimane lo stimolo che agita le passioni gnoseologiche e induce a ricercare, esplorare, scoprire.
I nostri confini mentali non ci sono sufficienti, non bastano a soddisfare un pur consapevole nonsense scritto o declamato dell’incomprensibilità della vita e del tutto. Pensare significa esistere in una propensione esponenziale di desideri e di voglie di avere qualcosa in più nel cielo dell’apparentemente inarrivabile, imprendibile, intangibile, irraggiungibile.
Il pensiero è una sfida con noi stessi: dell’esistenza per l’esistenza. A questa fame di conoscenza si può ricondurre, forse, un qualche significato, magari inconscio, della disperazione umana di essere depositari delle potenzialità della conoscenza universale e di tutti i limiti oggettivi che ci imprigionano nel buio e nel silenzio dell’Universo: contenitore del mistero, mistero esso stesso e, per questo, meta a cui rivolgere occhi, mente e cuore.
MARCO SFERINI
10 novembre 2024
foto: screenshot ed elaborazione propria