Il “disagio della civiltà” nella lotta tra etica e passione

«A more’, la vita è ‘na lotta…!». Sentenziava così, tra il serio e il faceto, un monsignor Colombo da Priverno in uno degli straordinari capolavori del cinema italiano sull’epopea...
W. Kentridge, "More sweetly play the dance"

«A more’, la vita è ‘na lotta…!». Sentenziava così, tra il serio e il faceto, un monsignor Colombo da Priverno in uno degli straordinari capolavori del cinema italiano sull’epopea risorgimentale: “In nome del Papa Re” di Luigi Magni nel 1977.

La ragazza segue l’alto prelato che tiene nascosto il suo fidanzato per salvarlo dalle grinfie del governo pontificio e, quindi, dal patibolo. Vorrebbe sapere se veramente lui è in casa del giudice del Tribunale della Sacra Consulta, oppure se è fuggito appresso ai garibaldini che si radunano a Mentana.

La risposta del monsignore è tra l’ovvio e il rassegnato all’ovvio stesso: ovunque ci si giri c’è sempre da lottare. Perché lo scontro è in noi stessi, fuori da noi e pervade da sempre la storia di una umanità che negli opposti, nella “dualità” dell’essere vivente si incontrano e se le danno di santa ragione quando entrano in scena le contraddizioni o, per meglio dire, quelle che noi viviamo come tali.

Il sergente Joker, un bravissimo Matthew Modine in quel grande manifesto antimilitarista che è “Full Metal Jacket” di Stanley Kubrick, che sul suo elmetto ha vergato il motto «Nato per uccidere», all’occhiello della sua divisa porta la spilla della pace. Un generale accigliato gliene chiede conto fino a domandargli: «Tu da che parte stai, figliolo?!».

E la risposta del soldato è irriverentemente sardonica e geniale: «Io tengo per noi, signore!», mentre spiega che proprio la dualità fa parte della intrinseca naturalità umana e che, quindi c’è solo una apparente contraddizione tra il portare a tracolla un fucile e avere a pochi centimetri di distanza, appuntata quasi sul petto, non una medaglia militare ma il distintivo del pacifismo tout court.

Lotta, scontro, dualismo umano. Si tratta, niente di più e niente di meno, dell’ancestralità di cui siamo fatti, permeati.

Noi non siamo quello che crediamo di essere e che è, consciamente parlando, la fisionomia esterna ed esteriore di quello che realmente coviamo internamente. O, per meglio dire, siamo anche l’apparenza, i mille pirandelliani volti che indossiamo ogni volta che affrontiamo le tante sfaccettature di una quotidianità sempre più veloce, repentina, imprendibile, non acchiappabile al primo tocco.

Noi siamo questo “io” freudiano e siamo, soprattutto, quell'”es“, quel grande mistero interiore che ci abita e che è uno dei padroni di quello che da svegli crediamo di essere: l’inconscio. In quella remota landa in cui, senza saperlo razionalmente, abbandoniamo noi stessi al senza tempo e alla dismisura, senza più legacci emozionalmente vincolati al pragmatismo delle esigenze dei rapporti sociali, là, proprio là si esprime la nostra vera essenza.

Freud definiva l’inconscio come un “calderone di impulsi ribollenti“, ma anche come il luogo del nostro animo (inteso come ψυχή (“psiché“), quindi escludendo la traduzione tutta cattolica dell’animo ellenico in anima cristiana, in soffio vitale che coincide col corpo, tipico di un dualismo platonico ereditato dai padri della Chiesa) in cui la rappresentazione delle emozioni trovava la sua espressione e il suo contatto con noi stessi mediante l’arrivo dei sogni.

L’onirismo, dunque, è il fenomeno principe attraverso cui riuscire ad indagare la lotta che ci uniforma, che ci plasma giorno dopo giorno.

La lotta di noi stessi con noi medesimi, dentro la più grande interazione tra lotte: quelle tra noi e il resto dell’esistente, sia psichico sia materiale, ma comunque reale tanto nella forma impalpabile dell’aleatorietà delle idee e delle sensazioni, quanto in quella considerata (forse a torto) più oggettiva della realtà concreta, tangibile e non trascendente.

La lotta, dunque, è parte della vita e, si potrebbe persino dire, che è parte della morte stessa.

Visto che questa appartiene alle esperienze che facciamo nel corso dell’esistenza e, dunque, è uno degli elementi su cui si fondano tante dinamiche e tanta angosce che non ci abbandonano mai e che, anche se fingiamo di minimizzare, sono una violenza bella e buona che ci è riservata dalla dubitabilità del nostro esistere, del nostro essere qui ed ora in quello che crediamo una specie di “solco del destino“.

Effettivamente, a pensarci molto bene, siamo – come sempre sottolinea Freud – degli “animali tristi” che, a differenza dei primitivi, reprimono le proprie passioni in nome di una accettazione costante da parte degli altri, per sentirci parte integrante di una comunità che, anzitutto, ci giudica e ci considera se e solo se introitiamo le regole che sono state stabilite nel corso dei secoli e che, sostanzialmente, divengono la pietra angolare di un tradizionalismo che innerva l’abitudinarietà istintiva dell’essere umano.

Noi lottiamo costantemente per stabilire un fondamento etico al tutto, per la morale comune, per la considerazione di quell’abominio che è l'”opinione pubblica“, evocata a sproposito ogni volta che qualche politicanteggiante vuole accreditarsi il favore della maggioranza, o della minoranza della maggioranza, di una platea elettorale vasta e considerevole per la sua promozione a rappresentante della nazione.

Questa lotta altro non è se non la lotta per la definizione compiuta di una piattaforma di condivisioni che permettano di riconoscerci singolarmente in una comunità che diviene tale nel momento in cui ci si riconosce, per l’appunto, fra “simili“.

Da un certo punto della storia primitiva in avanti, non è stato più sufficiente essere fisicamente uguali (o, se volte, per amore di precisione, somiglianti, analoghi, diciamo pure affini…) per poter vivere in quella che, oggi, verrebbe definita anglicisticamente la “comfort zone” di una esistenza lontana, o quanto meno al riparo, dal timore dell’insensatezza della stessa, della perturbabilità creata da una ridda di domande incessanti che affliggevano la mente dei sapiens.

Proprio l’evoluzione umana è – se vogliamo azzardare un paragone in chiave metaforica – l’inconscio (in quanto ancora inconsapevole) passaggio da una vivibilità totale delle passioni ad una progressiva remissione e repressione delle stesse che devono fare spazio a riti apotropaici per ingraziarsi gli dei di ogni stagione, per mitigare la solitudine, la ripetitiva, angusta ciclicità delle stagioni e per esorcizzare tutti i pericoli che tocca fronteggiare.

L’uomo primitivo cessa di essere puro istinto nel momento in cui inizia a comunicare e a scoprire che, così facendo, può argomentare, esprimendosi con la parola, con i gesti, con i disegni rupestri. Con la scrittura.

Dal momento in cui parla e scrive, tramanda tutto questo e inizia a creare la storia di sé stesso affidandola a chi verrà dopo di lui. La formazione dell’identità trova qui la sua originalissima ed originaria nascita. Non è dato dire se sia stata imprevedibile, imprevista e se sia la conseguenza di un meccanicismo evolutivo dato da leggi naturali.

Possiamo soltanto studiare le tappe di una evoluzione che, da quel momento in poi ha, con l’identitarismo, fatto emergere nei sapiens una distinzione tra comunità che venivano, secolo dopo secolo, plasmando una vera e propria cultura, una riconoscibilità di sé medesime nella diverse forme di comunicazione che si andavano diffondendo e che, da semplici suoni, da una primordiale (e biblica…) definizione generica di φωνή (“fonè“), acquisivano la capacità di associazione degli stessi con tutto ciò che li circondava.

La lotta per l’affermazione della propria cultura è, quindi, da sempre la lotta per l’affermazione del proprio stile di vita, per la propria sopravvivenza, spessissimo, a scapito di altre culture, di quelli che sarebbero divenuti nel giro di qualche millennio veri e propri popoli.

Ecco che la battuta di monsignor Colombo da Priverno alla giovane Teresa, per le vie della Roma papalina, sul finire dell’anno del Signore 1867, è la migliore traduzione sintetica di tutta una storia umana.

La vita è una lotta, perché nel nome della vita si è data la morte a miliardi di individui su questo pianeta da migliaia e migliaia di anni. Lo si è fatto per il potere, per garantirsi dei privilegi, per fare in modo che la propria esistenza fosse più facile, apparentemente, di quella di altri grazie a ricchezze, lussi, scoperte scientifiche e mediche da accaparrarsi per alimentare questo circuito evolutivo pervertito dalla presenza del dominio.

La lotta interiore tra “io” e “es“, tra conscio ed inconscio, a cui del resto l’inconscio partecipa solo se interrogato dal metodo psicoanalitico, non è estranea a tutto questo.

Il fatto che la sedimentazione delle nostre passioni, la loro esclusione, come desideri e voglie, fantasie inespresse e sogni respinti, stia nel fondo del fondo, nell’invisibile all’occhio del cosciente, non la rende qualcosa di altro rispetto alle dinamiche che gli umani stabiliscono nello svolgersi dei fatti.

Proprio le nevrosi più sepolte nel chiaroscuro del perimetro in cui neghiamo a noi stessi ciò che realmente siamo e diveniamo ogni giorno, sono il motore di una Storia che viene creata e che, a sua volta, crea e costringe ciascuno di noi ad essere alternativamente protagonisti o comprimari, attori o spettatori di ciò che accade, di quello che ci passa attorno, di quello che siamo quindi costretti a subire.

E’ quello che Freud descrive in una sua opera davvero fascinosa per mettere alla prova l’autocoscienza di ognuno (e di tutti): uscì nel 1929 col titolo “Das Unbehagen in der Kultur” (“L’infelicità nella civiltà“), ma sarebbe poi stata universalmente nota come “Il disagio della civiltà” e proponeva una considerazione nuova dell’etica in quanto tale.

Non tanto un tentativo di stabilire delle regole comuni per fare della vita qualcosa di armonioso, almeno in relazione ai rapporti civili ed umani; semmai uno sforzo da parte della società per controllare le passioni singole, per dirigerle entro cardini di tollerabilità reciproca.

Se non fosse così, le pulsioni di ognuno di noi ci porterebbero all’autodistruzione, perché non avrebbero, per l’appunto, limiti “etici“, quindi barriere da non oltrepassare nel nome del rispetto comune, vicendevole e, per questo, durevole. Avrebbe dovuto essere etico tutto quello che intendeva preservare la pace, lo scambio interculturale tra i popoli, la reciprocità tanto morale quanto materiale.

Ed invece, fin dai primordi della formazione delle cosiddette “civiltà“, l’etica è somigliata esclusivamente all'”io” cosciente, divenendo moralismo, pregiudizialismo, chiusura e impermeabilità.

L’assassinio delle coscienze ha come mandante tanto i rapporti di forza economici, che determinano gli sviluppi di intere culture e, pertanto, di complessità morali che vi edificano sopra, quanto la sovrapposizione tra repressione delle passioni e realizzazione delle stesse mediante l’evitamento della consapevolezza delle stesse.

La funzione del “super-io“, quella di “coscienza morale“, si esprime molto bene tanto nella esplicitazione del potere dall’alto in basso, quanto nell’accondiscendenza, nell’adeguamento, nella repressione di sé stessi per un fine che si considera maggiore.

A volte per opportunismo, altre volte per paura, tante altre perché, molto banalmente, si segue la corrente e si evita di macerarsi nelle constatazioni di fatti che pure vediamo, ma di cui non ci vogliamo più di tanto accorgere per non soffrire al pari di altri, per sentirci meno responsabili del divenire del mondo che abbiamo edificato e distrutto al tempo stesso.

La vita è una lotta, ma l’esistenza può essere anche pacifica e pacificata. Può essere che sia, può essere che un giorno lo sarà…

MARCO SFERINI

15 ottobre 2023

foto: screenshot dell’opera “More sweetly play the dance” dell’artista sudafricano William Kentridge; immagine tratta da Wikisource

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