Alcuni giorni fa, alla radio, ho ascoltato una frase che mi ha fatto sobbalzare, per quanto avessi già in passato riflettuto tra me e me nel merito della questione: le manifestazioni, praticamente, non servono a nulla, non raggiungono mai i loro scopi. Un liquidazionismo tremendo, una fascistizzazione concettuale quasi apocalittica nel descrivere tutta una inutilità che non farebbe sconti a nessun impegno politico, a nessuna partecipazione sociale.
Può essere che, prese singolarmente, cortei, manifestazioni, sit-in di protesta, flash mob con cartelli, striscioni e slogan di per sé non raggiungono lo scopo che si prefiggono nell’immediato, probabilmente perché non esiste un rapporto di causa ed effetto così diretto, un meccanicismo tanto preciso e puntuale da fare in modo che ad ogni rimostranza di piazza corrisponda una immediata correzione politica su questa o quella riforma, su questa o quella volontà di intervento di un esecutivo.
Eppure, la storia di questa disgraziatissima umanità ci ha dimostrato, nel corso dei millenni, che manifestare il proprio assenso o dissenso è fondamentale proprio per il progresso dell’intera società e che, anche quando le piazze perdono mordente e le loro pubbliche riunioni vanno scemando, qualcosa resta sempre e contribuisce al cambiamento: se nel bene o nel male è tutto un altro discorso affidato ad un sistema di valori etici che mutano col mutare delle condizioni sociali.
Dunque, affermare che le manifestazioni non servono a niente è molto semplicemente una stupidaggine, perché senza le grandi ondate di proteste che hanno attraversato i secoli, non avremmo avuto le rivoluzioni più importanti che hanno trasformato il mondo moderno e hanno letteralmente cambiato il corso della storia e della civiltà. Non solo occidentale. Un po’ ovunque nei cinque continenti tutti i movimenti di protesta e di proposta che hanno fatto sentire la loro voce, hanno prodotto mutamenti talvolta anche inaspettati e ben oltre le prime aspettative e le primissime rivendicazioni, forse anche un po’ timide, altre volte invece radicalmente spavalde e generosamente altruiste capaci di sfidare il buon caro “senso comune“.
Affermare che manifestare non serve a nulla è certo molto peggio del dire che andare a votare non serve a nulla. L’esercizio del voto è un diritto acquisito, proprio della democrazia e va difeso, a volte, proprio con raduni di piazza che rivendicano la centralità del Parlamento nella nostra Repubblica e la sua funzione primaria nella formazione delle leggi, delle regole generali che governano la vita di tutte e di tutti.
Se, dunque, viene messo in discussione il valore della libertà di manifestazione, ne consegue che sono sviliti e vilipesi anche il diritto al dissenso, la libertà di pensiero e la sua formulazione e concretizzazione in pacifiche azioni comuni che vogliono così contribuire a quella formazione della vita politica e sociale del Paese che prescinde persino dalla sua Costituzione, dal diritto positivo. Siamo nel campo del diritto naturale, perché il diritto all’esistenza è libertà dal bisogno e questa libertà, spesso, si scontra con quella tutela dei privilegi che i governi mettono in pratica per garantirsi il potere che gli deriva dal sostegno della struttura economica dominante.
Dietro anche la più banale e scontata delle affermazioni, come ad esempio quella in esame, quella che vorrebbe assegnare alle manifestazioni di qualunque tipo un disvalore piuttosto che la qualità di essere il luogo morale, civile e sociale di piena espressione di sé stessi e della collettività, si nascondono insidie ben peggiori: bisognerebbe stare sempre molto, molto attenti a formulare paradigmi così totalizzanti perché si scade veramente nel qualunquismo, finendo per rincorrere giustificazionismi di ogni sorta per rimediare ad inciampi che non fanno onore alla propria carriera di giornalista o di intellettuale, scrittore e, oggidì, anche di “influencer“.
Il diritto alla rivolta non esiste: esiste il diritto naturale di prendersi le piazze e le vie delle città, trasformandole in pacifici sentieri di disobbedienza civile, di opposizione alle politiche ingiuste che vessano i ceti più deboli, alle ingiustizie, contro qualunque prevaricazione, pregiudizio e torto fatto dalla cosiddetta “giustizia” a qualunque cittadino. Esiste e deve poter continuare a vivere lo spirito di un libero arbitrio che, cercando di stare nel perimetro della legalità, sia pronto anche a sfidare le leggi ingiuste, quelle che proteggono solo determinati ceti sociali, che sanciscono dei privilegi piuttosto che tutelare dei diritti.
Lo sciopero, ad esempio, è insieme manifestazione, protesta, lotta di classe e non si può dire che non serva a nulla: il valore sociale di una manifestazione è importantissimo, tanto quanto il valore politico che può avere. Pensare che non cambi nulla, nonostante i grandi rassemblement che passano per le vie delle capitali europee e del resto del mondo, vuol dire abdicare prima di tutto al proprio diritto rivendicativo, alla necessaria espressione umana di una stigmatizzazione che non può essere soltanto messa su carta, così come si faceva prima della Rivoluzione francese con i “cahiers de doléances“, ma che deve trasformarsi plasticamente in una dinamica dialettica concreta, tangibile, materiale.
Il dibattito sul diritto di manifestare, si intende, è altro tema ancora rispetto all’essenza stessa delle manifestazioni ed al loro ruolo antropologico nello scorrere degli eventi e della vita su questo pianeta. Questo dibatto si sta strozzando da solo, incistandosi sulla stretta attualità della ripetitività dei cortei no-vax e no-pass che, da oltre tre mesi, si formano (abbastanza) spontaneamente nelle principali piazze d’Italia. Per principio, bisognerebbe apprezzare la costanza e la durevolezza di un movimento che ha tanta tenacia nel riproporre le proprie (s)ragioni, ma queste manifestazioni sono degenerate in atti di violenze, in assalti alle sedi sindacali, in una propalazione di odio così esasperato, da alterare nel profondo i motivi per cui erano nate: quando ci si rivolge agli altri parlando soprattutto a sé stessi, si perde di vista l’obiettivo che si vuole raggiungere.
I no-vax, oggettivamente, sono una macedonia di eterogenesi dei fini così diversi da rendere impossibile una sintesi ragionata dei motivi per cui oggi sono ancora in piazza. Al loro interno si va dall’estrema destra all’estremissima sinistra che ha smarrito tutte le coordinate dell’interesse comune e vede solo complotti armeggiati dal capitalismo per i più diversi motivi. Il diritto di manifestare ha un valore fino a quando rivendica, consapevolmente, una piattaforma chiara, netta e condivisibile, tanto nel metodo quanto nel merito, anche da chi ne è apparentemente lontano.
Ogni manifestazione dovrebbe, per potersi dire tale, essere apprezzabile come sale della democrazia soprattutto da chi non la condivide. Apprezzabile, non, appunto, condivisibile. Dovrebbe essere vista come l’altro da noi, l’opposto anche ma con il pieno diritto di essere in piazza e di dire ciò che si pensa.
Invece, nelle piazze dei no-pass e dei no-vax la ragione ormai è la raffigurazione di un cartonato, di una sorta di convitato di pietra muto e sempre meno riconoscibile come tale, perché manca un coordinamento culturale, civile e sociale. Manca una sintetizzazione dei concetti, del resto impossibile da realizzare perché stiamo parlando di un fumus persecutionis che i no-vax fanno aleggiare in ogni slogan inseguendo nemici inesistenti e complotti creati per poter avere un avversario contro cui scagliarsi.
In questo modo il valore della libertà di espressione, di parola, di pensiero e di manifestazione, questo insieme di splendide virtù democratiche di un paese, di uno Stato, viene abusato e, proprio per questo, mortificato. Nemmeno la ripetitività settimanale dei cortei salva i no-vax dalle tante lacune scientifiche che dimostrano di avere: tutto si riduce ad un rito sempre più stanco, minoritario e guardato distacco dalla maggioranza silenziosa di una popolazione che è pronta a scendere in piazza ma per difendere i diritti fondamentali dell’essere umano, del cittadino e del lavoratore.
Nonostante ciò, nessuno deve toccare il diritto di manifestare. Non lo deve fare nessuna forza politica, non lo deve fare nessun rappresentante delle istituzioni. Ogni volta che qualcuno pensa di poter censurare una attività sociale, che include princìpi morali, presupposti ideali e politici, valori condivisi della più diversa natura, fa prima di tutto un torto alla Repubblica e non difende quell’antico adagio rousseauiano che è un po’ un codice che ha regolamentato la tolleranza a far data da qualche secolo a questa parte. Una tolleranza che, ricordiamocelo sempre, è un falso concetto positivo: perché mai deve esistere chi tollera e chi è invece tollerato?
E’ proprio stando molto attenti a queste pieghe nascoste del pensiero, cambiando le nostre parole e i nostri pensieri che, insieme alla lotta di classe per i diritti sociali e l’emancipazione del lavoro, che si potrà, ancora una volta, provare a cambiare il mondo.
MARCO SFERINI
6 novembre 2021
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