«Siamo andati a dormire nel 2023 e ci siamo svegliati nel 1948». Così diceva un messaggio giunto da Gaza nell’ottobre 2023, da A., madre nonna e attivista femminista di Gaza. Era trascorso un mese dall’inizio dei bombardamenti. A. racconta di come trascorre le sue giornate nel rifugio in cui lei, i figli e figlie e i nipoti hanno trovato riparo.
Dice del suo attaccamento spasmodico ai compiti che si è data: il procacciamento del cibo per i bambini – ormai isterici per la cattività, insonni per il suono senza sosta delle bombe e divorati dalla fame – il lavaggio dei vestiti con mezzi di fortuna e lo spazzare incessante della stanza-rifugio dove sono stipati.
Mai come dal 7 ottobre in poi, la Nakba del 1948 – durante la quale i due terzi dei palestinesi furono espulsi dalle loro terre e i loro villaggi distrutti – ha significato e descritto la condizione presente, anziché quella passata di 76 anni fa, nonostante la distruzione e la morte di oggi siano di una magnitudine senza precedenti.
Ma delle immagini, le testimonianze e i video che giungono da Gaza in questi mesi ce n’è una in particolare che testimonia di come la Nakba non sia un momento passato circoscritto nel tempo, ma una struttura temporale che ha sostenuto e sostiene il progetto coloniale di insediamento. Tra le tende del milione e mezzo di sfollati a Rafah una donna mostra una chiave: la tiene stretta in mano e con gli occhi pieni di lacrime invoca il diritto al ritorno.
Quella che ha in mano non è l’iconica chiave della casa nel villaggio di origine dei suoi nonni, che Israele distrusse nel 1948 con lo scopo di impedire il ritorno del profughi palestinesi. Non è la chiave che per decenni ha simboleggiato haq el ’awda, il diritto al ritorno, riconosciuto dalla risoluzione 194 delle Nazioni unite e violato, come altre decine di risoluzioni, da Israele.
La chiave è della sua casa nel campo profughi di al-Maghazi, da cui insieme alla famiglia è stata costretta ad andarsene per sfuggire ai bombardamenti israeliani e alla violenza genocidaria dell’esercito, che dal 7 ottobre ha fatto almeno 40mila vittime e oltre 70mila feriti, distrutto l’80% delle abitazioni di Gaza, ridotto in macerie le infrastrutture sanitarie ed educative e alla fame l’intera popolazione civile. Come lei, i due terzi della popolazione di Gaza sono profughi del 1948: i loro villaggi originari sorgono al di là del muro, oggi al loro posto ci sono insediamenti e villaggi israeliani.
Lo sfollamento forzato di circa l’80% degli abitanti di Gaza e la distruzione dell’intera striscia (con piani di deportazione di massa enunciati da politici israeliani in svariate occasioni) hanno fornito la più brutale e indubitabile prova che Israele è uno stato coloniale d’insediamento il cui intento è l’eliminazione e la «fossilizzazione» dei palestinesi attraverso la distruzione delle infrastrutture e dell’ambiente – del mondo e della vita – indigeni. È ciò che il progetto sionista definì narcisisticamente come «una terra senza popolo per un popolo senza terra».
Non c’è dubbio che qualsiasi scenario di giustizia per i palestinesi oggi debba quindi partire dalla considerazione di questa temporalità della sofferenza e della perdita di casa, di generazione in generazione, e tenere conto di come i processi interconnessi di sfollamento, distruzione ed eliminazione siano stati e continuino a essere le dimensioni centrali – materiali, simboliche ed epistemologiche – della questione palestinese.
Pensare all’effetto della violenza coloniale come una sequenza di case perdute e ricostruite – anche nei campi profughi e in esilio – anziché focalizzarsi sulla mera sottrazione della terra o sulla privazione di uno stato, aiuta a problematizzare il prisma attraverso cui per consuetudine molti leggono la questione palestinese: i palestinesi sono stati privati non solo e non tanto di uno stato nazionale, ma di casa, intesa come luogo politico e affettivo di esistenza.
Eppure in esilio le case sono state ricostruite, i campi profughi sono diventati casa, i rifugiati hanno lottato per sopravvivere e garantirsi da sé un’infrastruttura dell’esistenza, un presente e un futuro per i propri figli, mantenendosi tuttavia saldamente ancorati alla propria indigeneità, alla propria genealogia di appartenenza alla Palestina storica.
In queste case, ora di nuovo ridotte a macerie, per 76 anni i palestinesi hanno abitato una condizione di temporaneità permanente, una condizione spazio-temporale in cui si è forgiata una cultura politica e un immaginario di giustizia radicale, al di là dello stato nazionale che li ha storicamente esclusi come dimostra il progressivo abbandono o marginalizzazione del diritto al ritorno che ha finito col rappresentare i rifugiati come una comunità in eccesso rispetto al progetto «due popoli e due stati», come parte del problema piuttosto che della sua soluzione.
Decade dopo decade, i palestinesi sono stati vittime di due posizioni impossibili: Israele impedisce il loro ritorno e molti stati arabi e la leadership nazionale palestinese hanno imposto ai palestinesi rifugiati di accettare passivamente l’idea che accedere ai diritti, a una vita piena, nei paesi ospiti equivalesse ad assimilarsi e a rinunciare al diritto al ritorno, costringendoli a vivere nella destituzione legale e materiale, e nell’attesa.
Lo stato-nazione, la mancanza dei diritti in quanto ospiti e la promessa di vita piena attraverso il ritorno si è rivelata col tempo in tutta la sua aporia. Un nuovo immaginario politico, caotico ma radicale, è emerso tra i rifugiati, liberato dalla mitologia escludente dello stato-nazionale e dai suoi dispositivi (frontiere e diritti ancorati alla nazionalità o etnicità): «Siamo qui da prima che le frontiere fossero create», mi disse un rifugiato del campo di Chatila in Libano.
Nell’immaginario dei rifugiati, il diritto ad avere diritti esiste a priori e al di là dello stato nazionale. E nessun diritto può inficiare la propria appartenenza alla indigeneità palestinese, che precede e va al di là dello stato-nazione.
La definizione legale e comune del diritto al ritorno è di riparazione di un torto passato, col ritorno alle case e ai villaggi originari, ma come si ritorna a ciò che non esiste più? A cosa si ritorna? In tal senso, il ritorno non può essere se non ancorato a una visione: la politica del ritorno è profondamente visionaria e «aspirazionale», riguarda il passato come il futuro. Comprende anche il diritto a rimanere, (o a tornare) in quella che attraverso varie generazioni è diventata, anch’essa, casa.
Il campo/casa è un orizzonte politico e affettivo in cui passato, presente e futuro si intrecciano. Il campo, proprio in questa sua accezione di temporaneità protratta per generazioni, di casa temporanea eppure casa, di presenza che si contrappone e resiste all’annientamento, rappresenta la complessa cultura politica dei rifugiati.
Vi è più che mai bisogno di una lettura de-coloniale (e femminista) che sappia dare conto della profondità della perdita e del trauma collettivo, del terrore che il popolo palestinese ha subito e continua a subire, ma anche della capacità di rimanere presenti, umani, resistendo la disumanizzazione della privazione di diritti e della violenza coloniale e genocidaria, grazie non solo alla resistenza nell’ambito pubblico e politico, ma anche a un incessante e necessario lavoro di cura e ricostruzione della sfera intima e ordinaria dell’esistenza.
RUBAH SALIH
foto: screenshot tv