Vito Mancuso ha scritto una bella riflessione sulla paura che ci avvince e ci affascina – il fascino ambiguo di tutto ciò che minaccia la nostra vita, perfino questo coronavirus che alcuni virologi ritengono non peggiore di un’influenza stagionale (almeno quanto a percentuale di decessi). È un teologo, e dalle sue righe vien fuori un Dio che molti teologi del Novecento hanno trovato consono al suo nome: un Dio di grazia e di terrore, mortifero e avvivante, ambiguo quanto i nostri affetti – anche se, pantografata nel divino, la nostra ambiguità si chiama più nobilmente coincidenza degli opposti, Mysterium tremendum, «il dio che atterra e suscita». Insomma il Dio di Mancuso è un Dio dialettico. E assomiglia proprio come due gocce d’acqua a quello del sacrificio di Abramo, quel signore di dubbia o piuttosto nulla moralità che l’antropologia culturale chiama il «sacro», sottolineando con gaudio la violenza assassina che il simbolo, il totem, il recinto racchiude, incorona e adora.
Questo Dio è lecito non amarlo affatto. Io direi anzi che non amarlo è doveroso. Ma non è per questo che – dalla mia stanza isolata, in quarantena, a Parigi – vorrei rispondere a Mancuso, che nel suo ultimo libro (se Dio vuole) libera l’etica dal suo preteso fondamento divino, citando precisamente a contrario il sacrificio di Abramo. È perché la sua meditazione sulla paura e sul coraggio forse giunge alle stesse esortazioni cui ogni uomo di buona volontà, specie se pubblico intellettuale, dovrebbe giungere: ma lo fa per una via che a mio parere perde di vista l’essenziale. Mi spiego: c’è una passione che nel nostro Paese non alligna granché, ed è la passione per le distinzioni.
Distinguere il vero dal falso, in primo luogo. Distinguere i veri dai falsi numeri, ad esempio (vedi l’incredibile intervista rilasciata ai media oggi dal Consigliere per il coordinamento con le istituzioni sanitarie internazionali sul coronavirus Walter Ricciardi). Distinguere la peste da un’influenza, per quanto perniciosa. L’informazione dal sensazionalismo. La responsabilità istituzionale di governanti e amministratori dagli interessi di partito. La professione medica dal divismo televisivo. La coerenza, linearità e trasparenza delle disposizioni di un governo dalla vociferazione ubriaca di un’osteria. Perché una paura tanto opaca e confusa, tanto priva di cognizion di causa – tanto cieca, e non per colpa di chi ce l’ha – a me non sembra degna di alcun dio, e tanto meno dell’umanità civile che dovrebbe abitare una società democratica. E vengo al dunque.
Ho attraversato con sgomento e angoscia il mondo dei grandi moralisti classici, da Machiavelli a La Bruyère. Mi aprono un mondo di anime spaventosamente anguste, di motivazioni terribilmente meschine, di crudeltà barbariche e servitù volontarie, di “volontà di potenza poggiata sulla malizia e sulla frode” (Giovanni Macchia). Certo, anche di lampi grandiosi di intelligenza, nobiltà e follia. Certo, è anche il mondo di Amleto, di don Chisciotte, del Greco. Ma sono squarci di luce su quell’«abisso di vizi trionfanti» da cui fugge disperato Alcesti, il Misantropo di Molière. E’ la società del Re Sole. Ed è davvero verminosa e fosca quanto solare pare il trono e la gloria. Sono arrivata a una conclusione. C’è davvero un nesso essenziale fra l’anima e la polis, fra la forma politica dei rapporti che costituiscono uno Stato e la forma etica delle relazioni che costituiscono la società e le persone. E ho capito la ragione della tristezza che mi avvolge, in questa doratissima quarantena.
Quell’«abisso di vizi», appunto, secerneva dal dolore il dubbio e il fermento di un umanesimo nuovo, nutriva la luce dei Lumi. Ma la nostra società, travolta dal manzoniano «delirio collettivo» (grazie, Professor Squillace!), perduta ogni fiducia nelle sue istituzioni, istupidita dal sensazionalismo becero dei suoi media, mortificata dalla disoccupazione della mente, avvilita dall’assenza di speranza: quali dubbi, quali fermenti potrà mai produrre? Non lo avremo già raggiunto, quel sommo male che secondo una grande pensatrice francese non è il male, ma l’indistinzione del bene e del male? Non sarà un dio che rasenta la meschinità di un demonio gogoliano, caro Vito, l’ambiguo iddio che si aggira fra noi?
Quanto a me, se proprio di un Dio parlar bisogna, oh quanto preferisco quello di mia nonna, quando il prete saliva «all’altare di Dio, quello che accende la mia giovinezza». Perché non lo dite più, a messa?
ROBERTA DE MONTICELLI
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