Non c’è peggior comportamento per un politico inglese o americano, diciamo in generale del “mondo anglosassone”, che essere beccato a non pagare o anche ad eludere le tasse, seppure in un contesto del tutto legale in questo ultimo caso. La contribuzione è – peraltro giustamente – considerata un momento di costruzione e di mantenimento del proprio paese in quanto comunità di popolo, del proprio Stato in quanto istituzione che regola la vita della nazione.
Se a rinfrancar lo spirito dovrebbero essere – secondo il filosofo di Königsberg – la legge morale dentro noi e il cielo stellato sopra noi, non è al momento dato sapere quanto, alla vigilia del suo primo confronto televisivo con Joe Biden, sia sereno l’animo di Donald Trump: una inchiesta del “New York Times” rivela che l’inquilino della Casa Bianca avrebbe già dal 2016 – anno della sua elezione – versato al fisco della Repubblica stellata soltanto la ridicola cifra di 750 dollari di tasse federali. Una inezia, per l’appunto, visto che stiamo parlando di un multimiliardario, un “tycoon” piombato al vertice dell’amministrazione USA come tanti altri suoi colleghi grazie alla sua posizione economica, alle sue relazioni affaristiche.
Pare inoltre che per tre lustri, antecedenti alla data citata, Trump non abbia praticamente versato alcunché al fisco, sostenendo di essere in perdita, di aver quindi speso molto di più di quello che nel frattempo guadagnava. Viene da domandarsi come abbia potuto sostenere le spese della campagna elettorale passata e anche di quella attuale. Sovvenzionatori privati, certo. Funziona così. Magnati, amici, anche cittadini semplici, ossia gente del popolo che disgraziatamente crede nelle doti politiche di un presidente che ha ispirato l’era del nuovo sovranismo in tanti altri paesi d’oltreoceano. Ma le donazioni non sono mai completamente sufficienti per affrontare le spese immense che viene a costare la campagna elettorale per la presidenza degli Stati Uniti d’America.
A cinque settimane dal voto è lecito chiedersi quanto questa notizia potrà incidere sul risultato che dipende tanto dalle condizioni socio-economiche della popolazione, pesantemente colpita dalla pandemia da Covid-19, quanto dall’umore, dalla percezione che viene comunicata dagli eventi che si rincorrono e che formano un quadro sempre più inquietante della figura di Trump in quanto “uomo più importante del mondo“, poiché a capo del governo e della nazione la cui potenza economica e militare non ha eguali sul pianeta.
Del resto, la questione nucleare è stata riportata in auge da Trump più e più volte nel corso della sua presidenza che non si è limitata alle dichiarazioni rimbalzate sul piano internazionale, prevalentemente indirizzate all’Iran (molto direttamente), alla Corea del Nord e alla Russia (un po’ meno aggressivamente in entrambi in casi dopo gli abboccamenti intercorsi tanto con Putin quanto con Kim Il Sung): il governo statunitense ha sostenuto un aumento di circa il 20% in più degli stanziamenti per il nucleare. Nuovi sommergibili a propulsione atomica sono stati acquistati per un valore di 130 miliardi di dollari e una spesa simile è stata messa a bilancio per modernissimi missili a raggio intercontinentale.
Il “comandante in capo” delle forze armate americane non si è affatto risparmiato nemmeno sul terreno della guerra impropriamente detta ma altrettanto combattuta: quella su Internet, la “cyber war“. Il potenziamento di tutti gli strumenti digitali e interattivi per lo spionaggio, per l’attivazione di nuove procedure di controllo delle attività pubbliche e private di chiunque venga considerato un pericolo per la nazione, spiega molto bene quale sia la politica securitaria di un presidente che ha avuto solo parole sprezzanti per George Floyd, per il movimento “Black lives matter“.
Joe Biden, secondo gli ultimi sondaggi, avrebbe perso ben la metà del distacco in percentuale che lo separava da Trump. Gli analisti sostengono che siano soprattutto i maschi bianchi, presi dalla propaganda repressiva di Trump, dai tonanti appelli al ristabilimento dell’ordine nelle città, a voltare le spalle ai democratici e a preferire un voto repubblicano. Inoltre, sembra anche fare molta meno presa il carisma di Biden sull’elettorato ispanico e su quello afro-americano.
Hillary Clinton quattro anni fa riuscì ad ottenere il 65% dei consensi degli ispanici, soprattutto nella Florida che è stata più volte un banco di prova pari al temibile Ohio per decidere le sorti di una elezione presidenziale. Adesso, Biden pare dover fare ricorso alla sua vice Kamala Harris per rimontare su questo fronte molto incerto.
Il confronto televisivo di questa notte potrebbe essere sfavorevole proprio a Biden, a colui che viene visto come un vecchio sfidante cui l’inquilino della Casa Bianca riversa contro una ironia becera che però colpisce l’elettorato americano: parla di antidoping nel caso in cui il democratico regga al confronto, come dire che per le sua età è già tanto se sta in piedi…
Se, da un lato, Trump è più che coscientemente visto dal mondo della cultura, da gran parte di Hollywood, dagli stessi giornali conservatori come un pericolo per le relazioni internazionali, un disastro riguardo la gestione dell’emergenza sanitaria e un contraltare evidente dei valori costituzionali liberali dell’America di Washington e Lincoln, dall’altro lo sfidante non pare riuscire a sovrastarlo se non proprio per effetto di contrasto.
Biden se vince, vince non perché covince ma per efffetto di un voto contrario al ciclone sovranista Trump. Non saranno pertanto le inchieste sulle tasse a dare il colpo di grazia politico ad un presidente grottescamente indegno di sedere dove attualmente siede. Saranno le tante paure che si sommeranno, dai grandi magnati di impresa ai piccoli e poveri proletari di periferia e di campagna, a fare la differenza.
E’ chiaro che non sfugge, almeno alla larga maggioranza degli americani, l’abissale differenza tra la sregolatezza di Trump e lo svilimento anche soltanto formale del ruolo istituzionale che incarna, con annessi e connessi tutti gli altri rapporti di politica interna: prima dell’emergenza del Covid-19, è nei confronti del clima, dell’ambiente e dell’ecologia in generale che si è potuta vedere l’ennesima frattura tra un disegno di collaborazione internazionale per abbassare le emissioni di gas serra, per proteggere la natura, per difendere un patrimonio che non è solo dell’umanità.
Il timore più grande che può riguardare una presidenza di Biden, certamente agli antipodi rispetto a quella del multimiliardario che paga solo 750 euro di tasse all’anno, non sta tanto nella dialettica interna al Partito Democratico tra liberali e socialisti, tra lui e Sanders, tra chi vuole rimanere per spostare a sinistra (chissà dove l’ho già sentita questa affermazione…) il partito e chi si sta prodigando nel “Movement for People’s Party” (tra cui spicca la presenza del regista Oliver Stone) per dare vita ad un soggetto politico nuovo che guardi a sinistra senza troppi condizionamenti di un centro liberale.
No, il timore più grande, sempre secondo gli analisti che scrivono su testate differenti e che sono anche sovente sui principali canali del web e della televisione, sta nel fatto che Biden risulti essere un candidati “politicamente anziano” piuttosto che anagraficamente. Intendiamoci: l’età c’entra perché influisce sui suoi rapporti personali, sui contatti che prediligerebbe nella foramzione di un esecutivo con la testa molto rivolta al passato (liberali di centro che nemmeno Obama avrebbe preso in considerazione prima ancora della sua elezione); ma più di tutto si teme il tipo di impostazione anti-globalista su cui Biden potrebbe plasmare l’esecutivo e la sua personale azione politica.
Non si tratta di un anti-globalismo inteso nel senso socialista del termine, un essere contro la globalizzazione dei mercati, un fare riferimento a ragioni sociali prima che a ragioni di profitto. Nessuno osa mettere in discussione l’autentica fede liberal-liberista di “Sleepy Joe“. Piuttosto la paura degli stessi democratici è che Biden non sia al passo coi tempi e le sfide che proprio la globalizzazione capitalistica mette ogni giorno in campo.
Esistono, per la verità, pochi dubbi sulla scelta: anche i più scettici e critici nei confronti di Biden, sono pronti a votarlo per evitare altri quattro anni di trumpismo. Negli Stati Uniti questo gioco all’alternanza e al voto utile è più comprensibile rispetto al nostro Paese, abitutato – fino a non molti decenni fa – ad una logica proporzionale della politica e del rapporto tra popolo e politica. I sostenitori di Bernie Sanders non sono, dunque, nella lista dei problemi che Biden può elencare. Voteranno in massa per lui o, per meglio dire, contro Trump. Certo, i 78 anni di Biden, il suo essere cattolico e l’essere bianco non lo aiutano a convincere giovani, laici, neri e ispanici a preferire sé stesso rispetto a ciuffetto biondo (un ciuffo, sembra, scalato dalle tasse… le spese per l’acconciatura sarebbero state tutte detratte dal fisco…).
La domanda di cambiamento che esiste nel popolo americano, che aveva trovato in Bernie Sanders un interlocutore degno di nota, si era dovuta rivolgere ad un altro “anziano” della politica, pur affiancato da una giovane Alexandria Ocasio-Cortez, per trovare spazio tra una gioventù disillusa, avvolta nella morsa di un conformismo mercologico estremizzato all’ennesima potenza. Sanders ebbe il sostegno, come lo ha oggi anche Biden, persino del Partito Comunista USA. Un appoggio esterno anche quello odierno, ricco di critiche verso i democratici, dettato esclusivamente dalla volontà di fermare quello che i comunisti statunitensi chiamano senza alcuna ombra intepretativa “fascismo di Trump“.
Per fermare Trump occorre sperare negli errori di Trump stesso più che nelle capacità oratorie di Biden. Almeno sul piano meramente dialettico, comunicativo, televisivo. Riguardo alle politiche interne e soprattutto a quelle internazionali la differenza tra i due sarà esigua proprio perché si farà riferimento a questioni dirimenti per l’economia americana. Laddove si tratterà di gestire il dissenso, di guardare ad una politica “green” e ad una pacificazione nazionale in tema di diritti civili nonché di quelli sociali, forse le differenze tra il sovranismo autarchico di Trump e il liberismo di Biden si avvertiranno di più.
Ma mai abbanstanza per poter far dire a chi andrà a votare “contro Trump“: “Forse ho votato anche per Biden“.
MARCO SFERINI
29 settembre 2020
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