Il difetto d’origine dell’atavicità criminale lombrosiana

Genio, follia e degenerazione sono termini che appartengono ad alcune delle opere più celebri di Cesare Lombroso. Nel genio vi sarebbe della stravaganza, dell’esuberanza intellettiva ed intellettuale. Nella follia...

Genio, follia e degenerazione sono termini che appartengono ad alcune delle opere più celebri di Cesare Lombroso. Nel genio vi sarebbe della stravaganza, dell’esuberanza intellettiva ed intellettuale. Nella follia troverebbe posto molto della scaltrezza intuitiva della mente non tanto superiore, quanto eccellentemente diversa dalle altre e, quindi, destinata a produzioni o scoperte che altri non potrebbero mai fare.

Fin qui il lavoro dello scienziato che è considerato (a ragione ma anche piuttosto a torto) il padre della moderna antropologia criminale, si è rivelato essere ultramateriale, positivistissimo, erede di una dedizione alla scienza che potesse, finalmente, incontrare la filosofia: pensiero ed azione pratica, uniti nella concretizzazione di una consapevolezza sempre più finemente maggiore dei tanti dilemmi e problemi che affliggevano nella quotidianità una società decadente ma lanciata verso il parapiglia del Novecento.

Il naturalismo positivistico, senza ombra di dubbio, è progenitore del pensiero lombrosiano; ed è quindi, in un certo senso, responsabile delle tante opinabili teorizzazioni fisiopatologiche che lo studioso veronese inanellò nel corso dei decenni passati nelle aule universitarie, in quelle di laboratorio, nel manicomio di Pavia e in tanti altri istituti in cui potò verificare di persona che nella follia non c’era solo la patologia comunemente e genericamente intesa.

C’era di più: i “mattoidi” erano capaci di calcoli impossibili agli altri, e svolgevano attività e compiti con una bravura impressionante. Oggi, probabilmente, molti di quelli un tempo considerati folli e psicopatici li definiremmo “autistici” e, quindi, molto più semplicemente soggetti con una differente percezione della realtà ma per niente matti e tanto meno pericolosi o criminali.

All’epoca di Lombroso le cose andavano molto diversamente. Per quanto gli si possa rimproverare di aver azzardato teorie che, in seguito (molto in seguito…), si sono rivelate destituite di ogni fondamento scientifico, va comunque ascritto al suo merito di aver aperto la strada ad una indagine fino ad allora sconosciuta.

Fin troppo facile per fascismo e nazismo appropriarsene e farne il moderno uomo di scienza che ha scoperto la correlazione diretta tra struttura fisica anomala di un individuo e la sua, quindi, conseguente propensione al crimine.

Del resto, almeno fino all’ultima parte della sua vita, questa convinzione rimase in lui bene impressa ed a fondamento di gran parte dei suoi studi. In una delle riviste che hanno dato un contributo di grande conto anche agli studi psicologici (“Archivio di psichiatria, scienze penali ed antropologia criminale“, fondata nel 1880 proprio da Lombroso) ciò che ci si prefigge è questa ossessione per la simbiosi tra filosofia e scienza.

Il distacco tra l’elucubrazione accademica e intellettuale rispetto alla verifica pratica dei laboratori e degli studi applicati, è un dilemma che tanto Lombroso quanto altri suoi colleghi come Enrico Ferri e Raffaele Garofalo intendono estendere a tutta la comunità degli studiosi di antropologia, di fisiologia, delle nascenti neuroscenze e di quelle criminali.

Persino Sigmund Freud muove i primi passi verso l’elaborazione del metodo psicoanalitico prendendo spunto da numerosi scritti lombrosiani. Per poi distaccarsene nel momento in cui diventa dirimente il concetto di “atavicità” dell’istinto criminale dell’individuo che presenta caratteristiche fisiche deformi, abnormi o comunque anormali nel senso che non sono riscontrabili nella maggioranza della comunità umana.

Quanto l’unificazione del pensiero filosofico con quello scientifico fosse poi utile anche ad una sorta di calcolo politico, è una disquisizione tutt’altro che irrilevante o banale. Potrebbe persino essere alla base di una eziologia di tante ispirazioni perverse che hanno dominato la scena istituzionale e delle masse tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del nuovo secolo grande e terribile come il mondo che vagheggiava Gramsci.

Oggi, forse più ancora rispetto ai tempi lombrosiani, quelli della piccola Italia riunita in regno da appena un ventennio, si sentono diffusamente frasi pregiudiziali del tipo: «Ha proprio la faccia del delinquente». Ed i pregiudizi sono così capaci di sedimentarsi nell’inconscio nostro, da emergere come antipatiche nevrosi che, in quanto tali, negano qualunque forma di empatia rispetto alla particolarità che ognuno di noi esprime.

La tendenza umana è spesso rivolta alla presa in considerazione dei comportamenti altrui con la prevenzione mentale della stranezza come filtro interpretativo di quello che riguarda soprattutto coloro che non conosciamo a fondo. Ma poi, si può ritenere di conoscere veramente a fondo qualcuno? Ogni volta che affermiamo di “sapere chi sono“, presupponendo altezzosamente “io mi conosco“, non facciamo altro se non esprimere delle illusioni consolatorie.

Forse è anche per questa impossibilità conoscitiva attraverso il semplice raffronto quotidiano mediante le parole che, uno studioso attento come Lombroso, si concentra sulla fisicità.

Quindi su una materialità esasperata ed esasperante riguardante i corpi, che porta alle estreme conseguenze in teorizzazioni che, seppure senza responsabilità in prima persona dello scienziato, faranno pure la loro parte nell’influenzare le politiche di criminalizzazione di milioni di esseri umani ritenuti delinquenti per il solo fatto di avere un naso adunco o una circonferenza cranica minore o maggiore di quei cinquanta e più centimetri considerati “normali“.

La predisposizione genetica al crimine è stato un alibi molto comodo per tutta una serie di regimi autocratici e dispotici che hanno inteso separare le minoranze dalla maggioranze, spingendo queste ultime a concepire i delitti come espressione esclusiva delle devianze fisiche ma anche delle cosiddette “tare” familiari. Sarà costretto anche Lombroso, nell’ultima parte della sua esistenza, a prendere in considerazione tutte quelle relazioni sociali, economiche e psicologiche che possono indurre una persona a commettere un reato.

Sarà, quindi, costretto ad ammettere che, di per sé, tra i risultati dell’autopsia del brigante Giuseppe Villella e le scoperte delle neuroscienze moderne si inserisce tutta una ricerca, altrettanto metodicamente empirica, sui rapporti tra le classi sociali, sullo stile di vita o di sopravvivenza, sui molti condizionamenti che ognuno di noi riceve nel corso di una esistenza trascorsa in povertà o in ricchezza.

Se esistono delle differenze in merito, è abbastanza evidente che si ripercuoteranno in ogni altro ambito della vita di ciascuno e, quindi, di tutti.

L’importanza degli studi di Lombroso si rivela dunque duplice o, se vogliamo, espressamente molteplice: da un lato ci insegna che i presupposti non sempre corrispondono alle successive sperimentazioni che la scienza mette in essere per superarsi di continuo e mitigare sempre di più lo spessore dell’inconoscibile, stando pur sempre nel fertile brodo di coltura del dubbio. Il positivismo fu il punto di partenza di un naturalismo moderno che bramava la necessità di una condivisione su vasta scala dei nuovi princìpi.

Nel corso della sua carriera, lo scienziato veronese avverte la necessità di uniformare i metodi, di redigere un «un trattato completo di geografia medica di tutta Italia». La nuova nazione non ha una rete sanitaria vera e propria: da nord a sud non sono solo gli ospedali e le cliniche universitarie ad utilizzare pratiche e manualistiche differenti, figlie degli Stati italiani preunitari, perché la difformità sta anzitutto nel livello di conoscenza e di studio delle malattie fino ad allora conosciute.

Lo stimolo all’unificazione anche culturale e, quindi, scientifica delle strutture e dei programmi di apprendimento di scuole e atenei è un merito che possiamo dare a Cesare Lombroso. Diversamente, dobbiamo contestargli ciò che poi tutti hanno finito col rimproverargli: una disposizione alla considerazione della criminalità come un derivato di una fisicità che non è affatto il punto di partenza dell’istinto delinquenziale.

La sua affermazione, che ha trasvolato i secoli ed è diventata un po’ la sintesi (molto poco opportunamente) del suo vasto e compromettente pensiero, secondo cui «il criminale è un essere atavistico che riproduce sulla propria persona i feroci istinti dell’umanità primitiva e degli animali inferiori», ha indotto in errore un accademismo che, tuttavia, si è reso ben presto conto della mancanza di qualunque correlazione tra larghezze o strettezze degli arti e dei crani con i tanti delitti di cui era vittima la società di allora.

Quindi si pone la domanda: Lombroso ha piegato i suoi studi profondi, la sua dedizione alla causa della scienza e del sapere, ad una approssimazione per difetto dettata da una qualche forma di pregiudizio, questo sì, in lui “atavico“? Non lo sapremo mai.

Ma il fatto che sul finire della sua esistenza si sia parzialmente ravveduto, ammettendo che un criminale era tale soprattutto per il modo, i tempi e le dinamiche in cui si era trovato a vivere, e non perché lo fosse di sé e in sé, fa intendere che, tutto sommato, non avesse poi un pregiudizio così radicato su questa o quella conformità fisica.

La diffusione globale della psicoanalisi e della psichiatria farà in modo di dare ulteriore adito al fatto che molti dei nostri disagi sono atavici soltanto nel senso che possono essere introspettivamente ricondotti al nostro inconscio e, tutt’al più, possiamo emulare dai nostri genitori e progenitori qualche comportamento, ma non ereditare nessun “gene del male“.

Gli istinti primordiali possono essere questa atavicità lombrosiana? Ma nemmeno, perché noi agiamo senza pensare, naturalmente, quando il nostro corpo ci induce a comportarci in questo modo: se abbiamo sete, beviamo. Se abbiamo fame, mangiamo. E se non abbiamo acqua o cibo, cerchiamo di fare tutto il possibile per procurarceli, così da poter soddisfare la nostra necessaria soddisfazione di sopravvivenza.

La verifica a priori di una tendenza criminale data dalle caratteristiche fisiche non avrebbe mai potuto, come invece pretendeva lo scienziato veronese, essere avanti rispetto al diritto penale che considerava e considera caso per caso partendo dalla ricostruzione minuziosa del delitto e, quindi, della personalità e dei rapporti del presunto reo.

Ed è proprio la presunzione di innocenza che vale anzitutto: perché la dimostrazione della colpevolezza non è data da una deformità ma da ciò che realmente è stato o non è stato compiuto. A Cesare Lombroso è mancata la possibilità di dare una dimostrazione propriamente scientifica delle sue teorie che, infatti, sono rimaste quello che erano: solo delle ipotesi, delle illazioni, dei presupposti concettuali.

Quando una certa critica storico-politico-scientifica sostiene che egli cercò di inserirsi in un contesto postunitario con le sue teorizzazioni, provando così ad influenzare gli esisti delle campagne contro il fenomeno del brigantaggio, non va molto lontana dalla verità oggettiva: non solo Napoleone Colajanni ed Antonio Gramsci lo criticarono, ma ne attaccarono l’incongruente convivenza in lui delle idee socialiste e del preconcettualismo sull’uomo e sulla donna criminale.

Scrive Gramsci a questo proposito: «È noto quale ideologia sia stata diffusa in forma capillare dai propagandisti della borghesia nelle classi settentrionali: il Mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce i più rapidi progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o dei barbari completi, per destino naturale».

Il riferimento è abbastanza chiaro anche se non viene citato il nome di chi considera gli italiani del Sud in quel modo, secondo determinati schemi preconcetti.

Così, di questo capitolo di naturalismo positivistico evolutosi in Italia seguendo gli studi lombrosiani, rimane l’interrogativo gigante sull’importanza storica, politica, scientifica di una teorizzazione che, per la maggiore, ha prodotto grandi fraintendimenti, molto poco di pratico se non le ricadute che ha avuto nel consegnare ai totalitarismi e ai fomentatori di odio di ogni epoca successiva le basi pseudo-scientifiche per formulare ancora più strambe e nocive tesi razziste.

MARCO SFERINI

4 agosto 2024

foto: screenshot ed elaborazione propria

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Il portico delle idee

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