Pur essendo “social“, tanto quanto è sufficiente per dire politicamente e socialmente la mia, appagando così epicurianamente una vanitas che è la mia unica civetteria (almeno credo…), mi sono risparmiato l’ingresso in quelle applicazioni compulsivissime come Tik Tok. Troppo giovanili per un quasi cinquantenne che, a volte, confonde le cassette musicali con i CD o i VHS con i DVD.
E va bene, non sono così rimbecillito, e mi piace anche scherzarci un po’ sopra, fare del benevolissimo vittimismo da impenitente senior, per farmi coccolare un po’ dagli slanci entusiastici delle giovanissime generazioni.
Dunque, dicevo, Tik Tok me lo sono risparmiato, ma lui mi raggiunge comunque ogni tanto: attraverso amici che mi mandano dei video – lo confesso: pure simpatici e carini da vedere – o attraverso notizie come questa che, proprio, non si possono evitare…
Si tratta di una ragazza che insegna a “parlare in corsivo“. Un giochetto lontano dall’essere divertente e che, se si ha un po’ di tempo da perdere, si può ascoltare una, magari giusto due volte.
D’impatto, superato il disagio e oltrepassato lo shock per l’ennesima amenità prodotta da questa società culturalmente in declino e sempre più ricca di banalità, mi è venuto alla mente un paragone con il personaggio portato in televisione da Enrique Balbontin che, ormai un po’ di anni fa, insegnava a parlare in “s’vøöonese” (leggasi: “savonese“) e gorgogliava meglio l’italiano comicamente deformato per divertire il pubblico che iniziava a conoscere l’improbabile “torta di riso” e la mia città natale.
Non me ne voglia Enrique, perché il paragone è proprio soltanto per la scimmiottatura (e forse anche un po’ l’indiretto plagio) del tono con cui le vocali e le consonanti venivano pronunciate, allungandone il suono e tal volta invece accorciandolo improvvisamente. Una caricatura della lingua parlata che andava bene come spezzone comico televisivo e che, probabilmente, nell’era dei sociale è stata introiettata del tutto involontariamente dalla ragazza che in questo modo su Tik Tok ha cumulato 850.000 fedeli spettatori.
E’ questa la parte inquietante del racconto: quanto possa sedurre la banalità dell’ameno, dell’esibizionismo fine a sé stesso, di una voglia di essere celebre non per aver scritto o letto qualcosa che può regalare un attimo di riflessione in più su una canzone, un libro, un quadro, una trasmissione tv, persino un videogioco. Niente di tutto questo.
A peggiorare le cose, la “professoressa del corsivo” diventa famosa dopo che ha superato mezzo milione di “followers” e, così, la invitano in programmi di grande ascolto (che molto poco si discostano dalle missione di cretineria diffusa incarnata dalla app più amata dai giovani) e, ahinoi, dimostra, su sollecitazione di due conduttori radiofonici, di non aver mai letto la “Commedia” per antonomasia, quella del Padre Dante.
Persino i concorrenti dei quiz della sera saprebbero che «Nel mezzo del cammin di nostra vita…» è l’incipit dell’Inferno immaginato dal sommo poeta, certamente più famoso del «Dopotutto… domani è un altro giorno…» nel finale di “Via col vento” o del «Io ti spiezzo in due!» dell’Ivan Drago che aveva il volto mascellosamente e rigidamente sovietico di Dolph Lundgren. Lei no. Lei Dante proprio non lo riconosce e, quindi, non lo conosce. Peccato, perché da una professoressa di italiano in corsivo ci si attenderebbe, quanto meno, che avesse le basi per insegnare.
Però, possiamo fare un appello da qui: ci risparmi la lettura in corsivo del capolavoro dantesco. Certi strazi sono davvero insostenibili. Qui siamo lontani miliardi di anni luce dalla voglia di divertirsi e far divertire attraverso un impegno che poggi su una vera vis comica. Qui siamo all’improvvisazione che non ha nemmeno il retrogusto del talento e che si affida al basso livello di una seduzione della cerebrolesità dilagante per avere qualche minuto in più di successo dei quindici declamati da Warhol.
La ragazza è giovane. Beata lei. E avrà tempo per leggere Dante, per diventare magari una vera professoressa. Un po’ fuori corso, ma sarebbe già un grandissimo evento. Ma intanto, facendo finta di aver inventato chissà quale trovata divertente, dilaga nei social, fa serate nelle discoteche, appare in televisione e si fa sentire alla radio. Ha già vinto la sua scommessa: questa società le ha dato ascolto, le ha prestato orecchio, mente, occhi e ha capito che poteva diventare un “fenomeno“.
Da baraccone, si intende, ma pur sempre di fenomeno si tratta. E quindi, a metà tra il savonese di Balbontin (con tante scuse per l’ennesima inopportuna citazione e per l’accostamento) e un portoghese parlato da uno che avuto almeno due ictus negli ultimi dieci minuti, fa divertire i giovanissimi con l’esatto contrario del divertimento. Se per divertirsi basta allungare le vocali, restringere lo spazio delle consonanti e inventarsi dieresi, aptang o poveri dittonghi latini strappati al loro contesto originario, allora vuol dire che ci accontentiamo davvero di poco per ridere e per essere magari spensierati per qualche istante.
Ed è per l’appunto questo il dilemma: se le ragazze e i ragazzi si fanno bastare tutto ciò per passare qualche attimo di allegria, per evadere dai pensieri che li possono attanagliare o anche soltanto per goliardizzare insieme agli amici, la domanda che ci dobbiamo fare è essenzialmente fondata sulla qualità del divertimento, della spensieratezza.
Perché non pretendono di più? Perché basta una ragazza che pronuncia a casaccio le parole per creare un “fenomeno” mediatico, una specie di moda che riempie chissà quale vuoto?
Chi si esibisce su Instagram e Tik Tok assume per sé stesso il titolo di “influencer“: chiunque, nella disperazione generale dell’inconsistenza del futuro lavorativo, dell’incertezza sulle prospettive nonostante gli studi, può cavalcare l’onda emozionale che i social veicolano e provare a diventare qualcuno. Se basta indossare dei jeans e delle magliette di marca per avere milioni di followers, perché mai non dovrebbe essere possibile altrettanto magari alterando i suoni delle vocali e delle consonanti della nostra lingua?
Il successo, si sa, a volte è un fulmine a ciel sereno, arriva inaspettato e, tante altre volte, passa come una meteora. Passa e non torna più. E questo quando ci si mette un serio impegno, quando si studia recitazione, quando si sa che per avere un riscontro da parte del pubblico si deve anche dare qualcosa allo stesso che abbia un certo spessore, una qualità intrinseca data da chi vuole far divertire la gente che ti viene ad ascoltare.
Ma il rapporto con il pubblico dei social non è lo stesso di quello che si aveva tramite il teatro di un tempo e la televisione del poi. Il passaggio dal contatto diretto con chi sedeva in platea a quello con chi sedeva invece da casa è stato già di per sé altamente rivoluzionario. Ha cambiato il modo di concepire gli spettacoli stessi, di ogni genere. Non tutti potevano arrivare a calcare un palcoscenico o entrare in uno studio televisivo. Le trovate sono state tante, alcune anche istintivamente geniali.
Invece sui social tutti possono improvvisarsi “fenomeni“, “fuoriclasse” ed essere così potenzialmente degli influencer da milioni e milioni di contatti: il che vuol dire campare quasi di rendita per i ritorni economici che se ne hanno. Rischia di divenire un terreno scivoloso su cui molte ragazze e molti ragazzi finiscono, per non affrontare le difficoltà che questa società del mercato e della concorrenza spietata gli pone innanzi.
Si prospettano soluzioni di compromesso fin troppo semplici, legate a doppia mandata ad una banalità estrema di concetti, situazioni e rapporti interpersonali.
E’ il contrario del confronto aperto, diretto e anche serrato che si deve poter avere nel momento in cui si fa l’ingresso nella società vera e propria, quella dove la tua opinione viene messa a confronto con le altre e lì devi far valere la tua dignità di consapevolezza critica. Non è affatto detto che anche le esercitazioni al banalismo non siano compatibili col resto della vita quotidiana e che, in un certo qual mondo, non servano a raffronti con quella serietà dell’esistenza e dei rapporti interpersonali (soprattutto di massa, come nel caso dei social) che, proprio così, vengono meglio evidenziati e a cui si evita di cadere nel saccentismo un po’ parruccone.
Ma la troppa banalità, alla fine della fiera, nuove davvero se diventa un comune sentire, una “opinione pubblica” consolidata e che ci si consente con la giustificazione che, in fondo, ad essere un po’ “leggeri” non c’è nulla di male.
Ecco, l’attenzione che dobbiamo porre a fenomeni come quello del “parlare in corsivo” non deve essere dettata dalla stigmatizzazione aprioristica e spocchiosa. Deve essere prima di tutto una indagine per capire come nascono certe mode e che ruolo hanno nella società dell’egoismo, del consumismo compulsivo e del sempre minore accesso ad un soddisfacente tasso di empatia.
Capire e non condannare, pur maledicendo un certo uso dei social che, forse, è funzionale a questo sistema di alienazione non solo più di fabbrica e sul luogo di lavoro, ma ben oltre…
MARCO SFERINI
7 luglio 2022
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