La foto postata da Matteo Salvini sui social lo ritrae col sorriso tirato e un cartello in mano scritto a penna ed evidenziato in verde: il numero 46 è seguito da una freccia che conduce a 70. Sono i consiglieri regionali della Lega, cresciuti in questa tornata elettorale rispetto a 5 anni fa, e cioè a un’altra era geologica, prima che la Lega sovranista arrivasse al 34% delle europee.
Un dato che nasconde a fatica l’emorragia di voti subita dal Carroccio in tutte le regioni in cui si è votato. Un tracollo nascosto dal 3-3 nella sfida delle regioni. Si parte dalla Campania, dove Salvini aveva preso il 19,2% un anno fa: ora è al 5,6%. Puglia: dal 25 al 9% («Mi aspettavo di più», si lascia scappare il leader). Toscana: dal 31 al 21%. Marche: dal 38 al 22%. E ancora la Liguria, dove pure ha vinto il centrodestra: dal 34 al 22%. Il Veneto è un caso a parte, il boom della lista Zaia ha drenato la gran parte dei voti leghisti. E tuttavia il dato colpisce: la “Lega per Salvini premier” è passata dal 49,9 al 16,9%.
In totale, Veneto a parte, la Lega prende in questa tornata 892mila voti, contro 1.954.000 del maggio 2019. Nelle stesse cinque regioni, distribuite tra il Nord, il Centro e il Sud, dove il successo era stato clamoroso, la Lega batte in ritirata. Un flop clamoroso, che non può essere attribuito a dinamiche locali, ed ha un forte valore politico, visto che Salvini aveva fortemente politicizzato questa tornata elettorale, la più importante dopo la nascita del governo Conte bis. E in questo ultimi anno ha potuto giocare da battitore libero all’opposizione, contro un governo che è nato contro di lui con una operazione di palazzo, e dunque aveva buoni argomenti.
Ora si lecca le ferite: «Nel sud avevamo zero consiglieri e ora ne abbiamo sei…». E ancora: «Fino a ieri la Lega aveva 46 consiglieri regionali, oggi 70. Mia figlia fa la terza elementare ma sa che 70 è più grosso di 46, quindi il percorso continua». Il finale è quasi lirico: «La Lega vince in 5 comuni umbri su 6, anche senza il sostegno del resto del centrodestra. Grazie a chi ci ha dato fiducia a Valfabbrica, Ferentillo, Giove, Calvi, Attigliano». Per uno che voleva espugnare Firenze non c’è male.
Romano Prodi mette il dito nella ferita: «Battuta d’arresto? A me pare una marcia indietro». In soccorso arriva l’amica Marine Le Pen: «La Lega ha conquistato le Marche, bastione storico della sinistra, siamo lontani dalla delusione di cui parlano i media…».
L’unica consolazione arriva da Luca Zaia. Che, come va ripetendo da anni, non lancia alcun guanto di sfida: «La leadership all’interno della Lega non è nel mio interesse. È la quinta volta che presento la lista, ed è la quinta volta che vengono fatti questi ragionamenti». E Salvini? «Ha sempre dormito sonni tranquilli».
Salvo clamorosi sviluppi giudiziari delle inchieste in corso, dunque, la leadership non è in discussione: la Lega attuale è una creatura di Salvini, composta esclusivamente da fedelissimi, fatta eccezione per Zaia e per Giancarlo Giorgetti che- per ragioni diverse- non hanno alcun interesse ad assaltare il quartier generale.
Giorgetti infatti non ha le caratteristiche del leader mediatico, ha sempre giocato nelle retrovie, nelle relazioni economiche. La vecchia guardia bossiana è ormai completamente fuori gioco, anche Roberto Maroni ormai sta alla finestra. Resta uno zoccolo duro nordista guidato dall’ex assessore lombardo Gianni Fava e dall’ex deputato Gianluca Pini che si sono rivolti al Tar per poter usare il vecchio simbolo. Ad oggi dunque non ci sono rivali realmente in grado di contendere la guida del partito. Il vero rischio è che i voti li prenda Giorgia Meloni. In Puglia in parte è successo. E in Liguria Fdi ha raddoppiato i voti sulle macerie dell’alleato.
ANDREA CARUGATI
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