Il crepuscolo azzurro nella fortezza del liberismo italiano

Ci si chiedeva un tempo, in musica, cosa sarebbe restato degli anni ’80. Per chi li ha vissuti da ragazzo, quelli sono stati anni fantastici, in cui l’immaginazione era...
Silvio Berlusconi

Ci si chiedeva un tempo, in musica, cosa sarebbe restato degli anni ’80. Per chi li ha vissuti da ragazzo, quelli sono stati anni fantastici, in cui l’immaginazione era aperta sul mondo, attraverso le canzoni, nuovi libri, grandi novità che imperversavano dall’America e… la televisione.

Ecco, sarebbe stato meglio se ci fossimo domandati cosa sarebbe rimasto del successivo decennio, di quegli anni ’90 in cui proprio l’affermazione del privato prese a dilagare, la politica si rovesciò su sé stessa e l’Italia venne praticamente inghiottita dagli eventi internazionali.

Una intera classe dirigente, nazionale ma anche locale, venne spazzata via dopo cinquant’anni di dominio democristiano e, di seguito, socialista craxiano (è sempre bene precisare di che tipo di “socialismo” stiamo parlando in questi casi…).

Un equilibrio stabilitosi tra padroni e pentapartito, tra Confindustria e governi che si avvicendavano sempre sotto gli emblemi dello scudo crociato o del garofano rosso, per la prima volta nella storia della Repubblica si incrinava e per ritrovarne la stabilità non vi era altra soluzione se non iniziare ad ipotizzare il ricorso al tecnicismo.

Silvio Berlusconi la racconta diversamente.

Nei venti minuti di messaggio all’assemblea nazionale di Forza Italia mette in scena una favoletta per bambini dove la bontà, l’altruismo, il bene e l’interesse comune stanno da una parte, quella del centrodestra di cui iperbolicamente vanta Forza Italia come “spina dorsale” tutt’oggi, con una sfacciataggine pari ai proclami della “discesa in campo” di trent’anni fa, mentre tutto il resto che gravita nell’agone politico italiano è etichettabile come “comunista“, con particolare riferimento alla Cina di oggi.

La parola “imperialismo” esce per la prima volta da un discorso del leader supremo esclusivamente in relazione all’espansione di Pechino un po’ ovunque nel mondo.

Trova anche il tempo per una battuta semiseria, il vecchio cavaliere nero di Arcore: se i cinesi ci invadessero, non potremmo fare altro – essendo militarmente impreparati come Italia e come Europa – se non andare a scuola a studiare la loro lingua. Ne sorride e la platea azzurra plaude.

Il video è quanto di più grossolanamente patetico si possa assistere dopo le esternazioni di La Russa o dopo i video di Giorgia Meloni il Primo maggio.

Ma ha un pregio, se così si può dire: mostra tutti i limiti di un tempo della politica che si sta disperatamente avvitando su sé stessa in quanto a riformulazione di un’area liberista di centro, moderatamente tale, capace di ridare una qualche aspirazione di grandezza alla commistione di interessi imprenditoriali e di idee molto ex liberali che, ventinove anni fa ormai, permisero a Forza Italia di divenire in pochi mesi il primo nuovo partito del Paese.

In merito a ciò, Berlusconi non si discosta troppo dalla realtà dei fatti quando asserisce che era impensabile poter riportare l’equilibrio nella rovinosa stagione sociale, politica, giudiziaria ed economica dell’Italia immersa nella rivoluzione di Tangentopoli con la riproposizione dei vecchi schemi, delle vecchie forze politiche magari guidate da una generazione nuova di leader di cui, peraltro, non si vedevano chiaramente le fattezze.

Forza Italia permise di unire queste due necessità della classe dirigente: svecchiare e rilanciare, aggiornare rimanendo ancorati ai disvalori antisociali del passato. Il liberalismo democristiano e il socialismo craxiano trovavano spazio in quello che era l’unico contenitore possibile: un ante litteram dei “partiti pigliatutto” moderni.

Il nuovo fronte della borghesia moderna, seppure con qualche recalcitranza di certi ambienti imprenditoriali, che non disdegnavano una pace sociale fondata su un accordo col costituendo centrosinistra democratico, dalemiano prima, veltroniano poi, era in costruzione e avrebbe segnato marcatamente l’involuzione antiprogressista dei successivi trent’anni di vita del Paese.

La Forza Italia di oggi, separata da quella di ieri anche da una cesura rappresentata dalla breve stagione del Popolo delle Libertà, è un appiglio all’ultima controffensiva berlusconiana contro il tempo stesso.

E’ il disperato tentativo di ritrovare e far ritrovare alle correnti interne al partito, che si litigano un po’ tutto, le energie primordiali che avevano spinto il padrone Berlusconi a diventare politico, più che per passione per salvare il suo impero economico, finanziario e mediatico da quel timore percepito, da quella non troppo remota possibilità che le sinistre, moderate, riformiste, socialiste e comuniste, potessero arrivare a Palazzo Chigi e mettere mano ai privilegi difesi per tanti decenni da DC e alleati.

Una missione impossibile e a tratti anche grossolanamente ridicoleggiante: in particolare quando, nel proclamare la piena internità della nuova Forza Italia nella maggioranza di governo, garantendo così a Meloni e Salvini la massima collaborazione e compartecipazione alle decisioni, i toni trionfali si alzano e si fa del partito più debole della coalizione quello che la trainerebbe con il suo spirito eterno, impagabilmente attribuibile al suo fondatore e padrone.

I venti minuti del messaggio rivolto agli azzurri sono un ennesimo capolavoro comunicativo: chiunque può constatare l’aleatorietà di una sequela di ricostruzioni storiche che non aderiscono in alcun mondo al perimetro della storia d’Italia degli ultimi trent’anni.

Chiunque quegli anni li abbia vissuti, per sua disgrazia più che per fortuna, si rende conto che il livello propagandistico lascia il passo ad un esercizio che oltrepassa la retorica, che si perde nella fantasia e che proprio questa serve oggi ai forzitalioti per potersi ancora affermare come perno di un centrodestra in cui hanno prevalso le tensioni estreme, i presupposti neonazionalisti dai tratti marcatamente opportunisti, pronti a genuflettersi davanti alla BCE e alla NATO non appena al governo del Paese.

La parabola del berlusconismo non finisce oggi. E’ già conclusa da qualche tempo e, se volessimo proprio essere sardonicamente sarcastici, ma obiettivi nel seguire corsi e ricorsi dell’attualità, dovremmo ritenerla superata dai tentativi renziani di guidare da destra la sinistra puntando alla riaffermazione di un centro sempre affollato di etichette e sigle, molto poco praticato in quanto a tradizione politica propriamente tale.

L’intuizione, il guizzo rivolto al mero aspetto comunicativo, anche nel Berlusconi affaticato e stanco c’è.

Il leader si rende conto che l’unico modo che ha per tenere insieme quel che rimane di un partito litigioso e che si prepara ad un futuro prossimo di lotte intestine, di scissioni e chissà cos’altro, è la sua plastica figura fisica unitamente al suo messaggio di sempre: l’unità dei “moderati” (molto, ma molto tra virgolette) contro il pericolo “rosso“, contro quel comunismo paventato come minaccia italiana un tempo, globale oggi.

L’arrivo alla segretaria nazionale del PD di Elly Schlein tanto basta al cavaliere per fare intendere che la minaccia è ritornata, che con questi democratici non si può dialogare e che la CGIL non è da meno nei rapporti con il governo. A ben vedere il confronto è Palazzo Chigi a non volerlo esplicitamente, ma ai forzitalioti basta qualunque pretesto possibile per amalgamarsi e scordare le lacerazioni. Sia chiaro: fino a che c’è Berlusconi.

Perché quando lui non sarà più sulla scena politica, il sodalizio reggerà soltanto se a prenderlo in consegna sarà un erede dell’imperatore. Nessuno può reggere il confronto che, in sostanza, è lotta tra imprenditoria che fa politica direttamente e politica che tenta di assecondare il mondo delle imprese per avere il consenso e il governo del Paese.

Si romperà quindi un nuovo equilibrio. In Forza Italia ma pure nel centrodestra.

La saldatura di queste crepe non è ancora all’ordine del giorno, perché il cavaliere nero ha messo più di una toppa e perché l’età dispone ad un rispetto dell’uomo che va al di là dell’esegesi della politica praticata per mero interesse. Si prova a creare attorno al leader un alone mistico di sacralità intangibile. Misticamente non declinabile nella miseria umana quotidiana.

All’aura dei santi si sostituisce l’auri sacra fames virgiliana e, forse, la prima aiuta i liberisti del centro e della destra a tenersi stretta l’origine della loro fortuna politica. Se la prendeva con la fame d’oro il poeta augusteo e la tacciava di essere l’origine di tante nefandezze umane. Ed aveva ragione. I tempi, sotto questo aspetto, sono ben poco cambiati.

Il profitto rimane al centro dell’interesse politico, piegando le esigenze del pubblico al privato e lasciando intendere ad una larga fetta di popolo che la coincidenza tra liberismo e democrazia è la nuova frontiera delle possibilità di sviluppo dell’intera umanità.

E, purtroppo, questa è ancora l’opinione non solo delle destre che governano questa Italia postpandemica e in piena economia di guerra, ma lo è pure di un progressismo che fatica a ritrovare la sua natura inclinazione solo ed esclusivamente dalla parte di chi lavora, di chi è sfruttato. La piazza di Bologna manda un grido: «Sciopero generale». Va ascoltato prima che questo governo abbia il tempo ulteriore per fare altrettanti danni.

MARCO SFERINI

7 maggio 2023

foto: screenshot tv

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