No, il “complottismo” non mi appartiene come metodo di interpretazione della realtà e di analisi della medesima. Del resto io non sono altro se non un semplice commentatore improvvisato, che si limita – magari in questo con qualche indiretto cinismo, quindi assolutamente non cercato e voluto – ad osservare i fatti e a cercare di comprenderli attraverso le lenti di un piccolo mondo. Sempre troppo piccolo rispetto agli effetti della globalizzazione che sono repentini, immediati, velocissimi. Tanto da fare concorrenza alla luce che si muove continuamente intorno a noi.
Il complottismo non mi appartiene ma è seducente, perché pur non dando spiegazioni che si possono rifare a dati concreti, a certezze assolute, dimostrabili attraverso fonti verificabili, pone dei dubbi.
Personalmente, ogni fenomeno che alimenta dubbi, critica propositiva e voglia di indagare, mi stimola, mi allarga quell’entusiasmante boccheggiare davanti al mistero che subentra inevitabilmente allorché le istituzioni mondiali e quelle nazionali dicono e non dicono, affermano e smentiscono.
I tentennamenti, seppur dettati da un ovvio e comprensibile momento di assestamento dell’azione di governo nella gestione di una fase così critica per il Paese (se non altro perché in queste dimensioni d’allarme mai s’era vista se non in altre circostanze come catastrofi naturali, ma comunque non potenzialmente espandibili a tutto il resto della Penisola), non possono non lasciare intercapedini di incertezze in cui si inseriscono tanto i complottisti più determinati a smontare le bufale dei governi e delle internazionali massonico-giudaico-capitalistiche, quanto semplici cittadini che anelano alla comprensione, cercano in sostanza la verità.
La verità è sfuggente, è scivolosa: le mani non la possono afferrare e se te la trovi sotto i piedi, ebbene rischi di fare un capitombolo e di ruzzolare ben bene a terra.
Ci si chiede come sia potuto accadere che l’epidemia di Covid-19 si sia così propagata nel Nord Italia. Domanda legittima che presuppone una risposta scientifica. Una risposta che, al momento, epidemiologi e infettivologi non hanno. Abbozzano alcune ipotesi, ma è ancora troppo presto per poter “sapere“, quindi per poter avere una qualche certezza in merito. E questa è una incertezza che assume le forme sicure del “dato di fatto“. Un non fatto è un dato di fatto. Sarà pure una contraddizione, almeno in termini, ma così è e rimane. Per ora.
Poi ci si chiede come sia stato possibile che in pochi giorni il Paese intero si sia fatto prendere da una ondata tale di panico e di isteria da svuotare i supermercati, depredare le farmacie (nel senso di assediarle per avere mascherine da sala operatoria e bottigliette di Amuchina e di qualunque altro disinfettante reperibile) come se i rifornimenti di alimentari da un momento all’altro fossero sospesi per sempre (o per lungo tempo) e come se le farmacie dovessero chiudere le saracinesche e lasciarci in balia del Coronavirus dilagante dai due focolai del lodigiano di Vo’ Euganeo.
Ed anche questo è un dato di fatto. Dall’espansione dell’epidemia ai conseguenti comportamenti della popolazione, viene in mente Tertulliano quando afferma, in base ai dogmi ecclesiastici, che ciò che è impossibile è in fondo certo: Gesù è resuscitato? Questo – dice l’apologeta cristiano – è impossibile, dunque è sicuro (“Certum est!“).
Si capovolge ogni senso della realtà, ci si affida esclusivamente alla percezione e si altera il rapporto tra razionalità e sensazioni che, del resto, è sempre molto precario anche nella consuetudine ordinaria delle nostre vite: siamo intrisi tanto di ragione quanto di passioni e sovente queste ultime esprimono sentimenti che, inconsciamente, ci guidano verso comportamenti privi di senso pratico, che non sono di giovamento per la situazione in cui viviamo, ma siamo trascinati dalla voce interiore, da un istinto che prevale e ci guida al posto della calma razionale.
Conosco il panico, per altri motivi, so la potenza che esercita in ciascuno di noi: ma c’è panico e panico. Si tratta sempre di irrazionalità, di una paura immotivata e per questo classificabile come “fobia“, quindi una minaccia non reale, almeno hic et nunc, ma noi la viviamo come se invece ci circondasse e ci avviluppasse. Ne siamo preda perché scatta il meccanismo della difesa, dell’evitamento della situazione che genera il panico stesso e quindi ci si rinchiude in stretti recinti, tanto comportamentali quanto mentali.
Si evitano persone, cose, situazioni. E questo vale per il panico individuale, quello che nasce da nevrosi e condizioni psicologiche del tutto singolari e personali, quanto per il panico sociale che nasce, invece, da una isteria collettiva solleticata ogni ora del giorno da tutte le informazioni che riceviamo dalla televisione, dai “social network“, dagli spasmi introspettivi che ci costringono a digitare sulla tastiera le chiavi di ricerca più strampalate per verificare se questa o quella nostra paura può o meno essere fondata.
Ogni appello ad attenersi alla pragmaticità dei fatti cade nel vuoto: è il razionale che si scontra con la passione interna dell’irrazionale. Siamo il “nascosto di noi stessi” che emerge attraverso le angosce, le paure.
Ho l’impressione che in questi momenti di follia generale prenda corpo lo sfogo di molte, sedimentate ansie quotidiane, di istinti repressi: così nasce forse la indiscriminata caccia all’untore, lo stigma verbale e la generazione del sospetto verso tutto e tutti, o magari, ancora una volta, verso i cinesi che qualcuno prende a bottigliate in testa pensando così di vendicare l’importazione del virus in Italia.
Dalle esperienze si impara. Almeno così dovrebbe essere. Ed oltre ad imparare che la modifica del Titolo V della Costituzione è stato un grave errore, servirebbe prendere contezza del fatto che la vita moderna ci ha reso molto fragili sul piano delle emotività e che tutti siamo in balia del “sentito dire“, oggi amplificato a dismisura dall’utilizzo dei social che sono vere e proprie armi di distrazione di massa. Anzi, di distruzione cerebrale di massa.
La paura è fondamentale nella nostra vita. Ci aiuta a percepire i pericoli. Ma quando travalica i confini del suo ruolo nell’ambito umano, allora diventa un’arma pericolosa.
Lo diventa nella penna di giornalisti senza scrupoli, che vogliono vendere i quotidiani non perché siano letti ma perché si parli dei loro stessi quotidiani (grazie ai vergognosi titoli allarmistici che in questi giorni sono stati fatti e di cui i rispettivi direttori non provano alcun rimorso e di cui tanto meno pensano di chiedere scusa), al fine di aumentarne le vendite.
Lo diventa nel confronto ormai ancestrale, viscerale, di una tuttologia che si impadronisce di ognuno di noi (compreso il sottoscritto, seppure in una lieve – si spera – forma critica), quindi un bisogno di esternare ciò che si pensa come transfert necessario delle nevrosi quotidiane. E lo diventa, ovviamente, nel rimpallarsi foto, titoli, notizie presunte tali, più che altro approssimazioni che esponenzialmente aumentano le angosce di cui siamo vittime e che vorremmo scansare.
Forse dovremmo smetterla di parlare agli altri delle nostre paure; dovremmo tenerle un po dentro noi e coltivarle nel silenzio. Ecco cosa manca: il silenzio. Non quello delle istituzioni che devono informarci sugli sviluppi del Coronavirus, ma il nostro. Il tacere, il trattenersi dal replicare su Facebook, Twitter e altri social ad ogni affermazione che leggiamo, dando una soluzione di continuità a questo cortocircuito perverso che si è creato nelle nostre menti così deboli e prive di difese culturalmente e socialmente immunitarie.
MARCO SFERINI
26 febbraio 2020
foto: screenshot