Quanto tempo passiamo online? È una domanda ormai priva di senso. È difficile fare una distinzione tra la vita dentro e fuori dalla rete da quando i telefonini «smart» si sono diffusi tanto capillarmente nelle nostre abitudini. Per questo la nuova edizione di La psicologia di Internet di Patricia Wallace (Raffaello Cortina Editore, 521 pp.), a sedici anni di distanza dalla precedente, ha molte difficoltà a tracciare un identikit della personalità online. Le regole sono così cambiate che non è possibile isolare i comportamenti online dagli altri. Eppure quando il principio di responsabilità e le motivazioni dell’agire si manifestano sul palcoscenico digitale, alcune caratteristiche si modificano. Il corpo è assente, se non in immagine, e con lui si cancella la capacità empatica. La distanza e la possibilità dell’anonimato rendono le persone a volte insensibili alla sofferenza altrui e le spingono a ignorare o minimizzare le conseguenze delle proprie azioni sul vissuto dell’altro.
L’intento del libro non è restituire una tesi prefabbricata su cosa succeda online. Patricia Wallace – docente alla John Hopkins University e autrice anche di un altro libro sui cambiamenti psicologici verso il lavoro dovuti anche alla Rete – propone un quadro equilibrato e positivo dell’attività digitale senza prendere una posizione precisa, dando conto dell’ampio dibattito sui temi presi in esame, riferendo dei risultati, talvolta contraddittori, dei tanti esperimenti condotti per analizzare e valutare la psicologia dell’agire in rete.
Proprio la posizione neutra dell’autrice, a volte tanto esibita da risultare un po’ forzata, fa saltare all’occhio alcuni aspetti eclatanti della sua sintesi. Sembra ormai acquisito che online si tenda all’azione con maggiore superficialità e impulsivamente. Inoltre la rete ci rende più freddi e riduce l’intelligenza emotiva rispetto alle altrui ragioni. I conflitti si attivano più facilmente e le incomprensioni fioccano. Il testo scritto di corsa e distrattamente, tipico di molta comunicazione digitale, fraintende le parole, attribuendo loro un significato più tagliente e rigido; senza la mediazione dei segni del corpo aumenta la percezione di offesa o di accusa. Nello stesso tempo ci si esprime in modo precipitoso e non ponderato, quindi tra la percezione fallace e l’attitudine ad agire senza controllo, spesso le conversazioni online via chat, email, forum e mailing list tendono a degenerare più facilmente in conflitti.
Ci facciamo un’impressione immediata e pregiudiziale degli altri online soprattutto a partire dalle immagini che li rappresentano quindi tendiamo a essere più indulgenti e gentili con persone che espongono immagini più piacevoli, senza distinzione di genere. La rete inoltre, forse per gli stessi motivi, facilita l’esplosione dell’odio, dell’aggressività e dell’amore. In generale tutte le relazioni interpersonali sono mediate da una componente fantasmatica, l’interazione online amplifica il carattere proiettivo dell’incontro con l’altro.
La mancanza del vincolo della presenza – l’altro è solo uno spazio proiettivo intatto – mette il ruolo del fantasma in primo piano nella relazione. Cosa è la libertà dell’agire senza il limite dell’esistenza dell’altro dei suoi bisogni e delle sue preferenze? L’azione online sembra governata da un processo pulsionale privo di inibizione, in larga misura solipsistico, sia che si tratti dello scoppiare di un flaming, sia di un incontro virtuale che conquista in un attimo il nostro orizzonte sentimentale e emotivo.
Anche in gruppo sembra prevalere il senso di appartenenza e la polarizzazione delle opinioni basate sul conformismo, soprattutto rispetto a persone considerate influenti; in questo il mondo offline non fa molta differenza. Una conferma semmai che il cyberspazio da solo non produce la rivoluzione. La polarizzazione tende a presiedere tutte le attività collettive online, ma questo tratto può essere utile nel caso di gruppi di aiuto o autoaiuto.
Le persone che in mancanza della presenza fisica rete vivono meno insicurezze tendono a manifestare le proprie fragilità con maggiore disponibilità e gli altri con problemi simili, o altre persone spinte dal bisogno di aiutare possono essere un conforto, offrire informazioni e soprattutto mostrare comprensione e affetto che vicaria la loro frequente assenza nel mondo offline.
Nelle malattie, nella cura delle dipendenze, nel confronto su questioni legate all’identità sessuale i gruppi di autoaiuto funzionano molto bene, anche perché il comportamento «prosociale» è sostenuto dal carattere di visibilità e riconoscimento che l’azione online comporta per chi fornisce il supporto. Non è chiaro, infatti, se la generosità di chi offre solidarietà sia un atteggiamento positivo o si basi sulla superiorità garantita al benefattore.
Restano comunque possibilità di manipolazione e inganno che agiscono sia solo per divertimento, sia a fini di vere e proprie truffe, che sfruttano la disponibilità alla confidenza di persone sole e fragili per estorsioni di denaro niente affatto virtuali. Sebbene queste realtà costituiscano un rischio in rete per la possibilità di parziale anonimato, rappresentano solo casi particolari, che a volte minano eccessivamente la fiducia delle persone.
Il ponderoso libro di Wallace si occupa di molti altri temi: il gioco online con le sue molteplici possibilità positive o negative, il ruolo della rete per lo sviluppo infantile, la sessualità online con il suo carico di opportunità e rischi e il grande problema della dipendenza da Internet che, pur non essendo ufficialmente catalogata come disturbo mentale, viene già curata in molte strutture di supporto psicologico negli Stati Uniti e in altri paesi.
La questione più scottante, che, subito posta all’inizio, aleggia su tutta la prima parte del volume, è se la rete ci renda più narcisisti. Nonostante tutte le cautele di Wallace, la risposta sembra essere positiva. Il grande gigantesco palcoscenico che ci consente di mettere in scena noi stessi non dorme mai, come il capitale. Non c’è tempo per le prove. Si va continuamente in scena. Ma non basta la rete da sola a causare l’epidemia di narcisismo. Ad accompagnarla fuori troviamo il costante bisogno di conferme esterne in una società che inneggia alla crescita perenne e non smette di spingere alla competizione, spacciata come panacea di tutti i mali.
Nessuno vuole essere perdente, ma a volte si vince, a volte si perde. Non esistono atleti che continuano per tutta la vita a battere i propri record e gli avversari. Anche per Totti questa è probabilmente l’ultima dolorosa stagione. Pensare che conti solo vincere spinge a cercare gratificazioni superficiali, credendo di poterle misurare nella perenne illusoria ascesa di like e di amici per i quali esibirsi.
TERESA NUMERICO
foto tratta da Pixabay