Aldo Bonomi mi propone di rimettere in gioco il mio Non ti riconosco, dichiarazione di smarrimento espressa in forma affermativa. E di virarla, per così dire, in forma interrogativa: come provare a conoscere il nostro tempo, fattosi appunto irriconoscibile?
Ricostruisce anche, in quel suo articolo, il nostro “camminare domandando” fuori dalle mura sicure del fordismo verso i territori magmatici del post-fordismo. E racconta la fatica di Sisifo di seguire il movimento altalenante della scomposizione e della ricomposizione di quasi tutto, soggetti storici, equilibri territoriali, comparti produttivi e riproduttivi, forme della rappresentanza e della rappresentazione… Con in testa la consapevolezza (l’idea, l’utopia?) che lasciate alle spalle le fabbriche in rovina – gli antichi punti focali di un conflitto fondativo e in fondo costituente – si trattasse, per chi non volesse arrendersi, di “fare società”. Parla, infine, di “sociologia delle macerie”, per dare un nome, sintetico, al nostro “lavoro intellettuale”.
Mette in fila tutto questo, Aldo, e ogni passaggio non è solo un pezzo di un’autobiografia collettiva rivisitato. E’ anche una sfida al nostro dispositivo conoscitivo: un colpo di piccone, un tassello dopo l’altro, a un “paradigma” che forse non richiede solo di essere aggiornato, ma sostituito perché, appunto, “falsificato” (ossia, rivelato fallace alla prova dello sguardo).
Prendiamo la questione della scomposizione e della ricomposizione.
Forse quel ciclo non è affatto “eterno”. Forse alla scomposizione non segue più una ri-composizione, ma solo la decomposizione. Forse la distruzione creatrice di schumpeteriana memoria, creatrice non è più. Si limita a distruggere e basta. L’Italia, dobbiamo ben dircelo, ha mancato il passaggio dall’età industriale a quella successiva. Non ha più un vero apparato industriale (ce l’ha spiegato Gallino più di dieci anni fa), non ha ancora (e non avrà mai) una vera economia dei servizi, se non a microscopiche macchie di leopardo.
Quello che osserviamo scrutando “il sociale” sono appunto macerie. Ma il resto dell’Occidente, pur mascherandole meglio, non è un esempio di salute. L’Europa sta su nelle sue aree centrali ridistribuendo alla rovescia le risorse – dal basso verso l’alto, dalle periferie ai centri – ma non ne crea di nuove, portatrici di futuro… E negli Usa, l’abbiamo visto quale sia il peso delle macerie delle infinite heartlands rispetto alle sottili fasce a scorrimento veloce delle aree costiere, in occasione dell’elezione di Trump… Per questo concludevo l’introduzione del mio libro citando Libeskind secondo cui essere consapevoli di essere parte di una fine è già un inizio…
Oppure prendiamo il progetto sintetizzato nella formula “fare società”. Doveva segnare l’avvento della figura del “Volontario” come nuovo produttore di buone pratiche e di alternative all’esistente, in sostituzione dell’obsoleto “Militante” ottocentesco. Favorire forme ardite di Communitas virtuosa nel quadro di un umanesimo rigenerato.
Non è andata così. All’inverso.
Non voglio fare di ogni erba un fascio. Men che meno insistere sulle piaghe più evidenti di quel “mondo”: le “Misericordie” impiegate come polizia interna prima nei Cie e poi negli Hotspot, guardiani di un’umanità dolente e vessata, testimoni reticenti e a volte complici delle vessazioni; le cooperative sociali costituite a copertura di attività criminali dei nuovi schiavisti, a far mercato dei corpi migranti… Non voglio parlare di questi casi di aperto tradimento della mission del Volontariato.
Voglio parlare dei suoi settori “sani”, che lavorano non solo nella legalità ma per la legalità e la solidarietà, ridotti tuttavia a sbiadite controfigure. Tritati nel meccanismo del mercato, spesso sviliti nella logica degli appalti che li costringe alla concorrenza reciproca, al mors tua vita mea, alle scelte al ribasso pur di aggiudicarsi i servizi che in un paese civile spetterebbero all’ente pubblico. E comunque costretti all’irrilevanza nel campo delle decisioni che contano. Oggetti e ornamenti delle retoriche politiche.
In questo contesto, la nostra “sociologia delle macerie” non può che disvelare ciò che trova: macerie, appunto. Senza un punto archimedico su cui poggiare, la sociologia non può che rimanere meramente – inerzialmente – descrittiva. E quel punto archimedico non può che essere, per una sociologia che voglia essere anche performativa – che non rinunci cioè a essere, per dirla ancora con Gallino, pensiero critico -, il “conflitto”. L’apertura di linee di frattura mobilitanti. Forme della resistenza e del rifiuto d’obbedienza ai dispositivi della sottomissione e dell’espropriazione.
O meglio, la domanda (le domande) sul conflitto (sui conflitti): sul come, il dove, il chi e soprattutto il perché di esso (anzi di essi, al plurale). Perché, nonostante la moltiplicazione del disagio e del degrado sociale, questa assenza di protesta stabile e dispiegata, che non sia la forma delegante e sfregiata del voto cosiddetto “populista”? L’unico che sembra – sembra, appunto! – far paura ai nuovi padroni del vapore transnazionale o ai loro (provvisori) ceti politici.
E poi, dove puntare lo sguardo per tentare almeno d’intravvedere l’embrione di una linea di faglia che si allarga? Un tempo si disse “ai cancelli!”, perché era lì, sulle catene di montaggio, che il lavoro vivo resisteva al comando incorporato nella “tecnologia di concatenamento” che l’incatenava. Poi si disse “fuori!”, negli spazi prima periferici della fabbrica diffusa dove il produrre s’impastava col territorio e le sue reti di prossimità.
Ma oggi? Dove ci si batte per contendere brandelli di autonomia, individuale o di gruppo, al comando altrui (perché, continuo testardamente a pensarlo, è questa, dell’autonomia, la radice creatrice in ogni autentico conflitto sociale).
Chi lo fa? Gli ambulanti nei mercati rionale condannati all’estinzione dalla “direttiva Bolkenstein”? I taxisti in rivolta contro il grande fratello incistato nell’App di Uber? O i futuri schiavi del dispotismo di quello stesso algoritmo, destinatari delle contumelie dei taxisti? O i nuovi agricoltori impegnati nella difesa delle qualità organolettiche dei propri prodotti contro la standardizzazione uniformante e immiserente dell’agricoltura chimica? O i residenti-resistenti portatori di una coscienza di luogo nel tempo del predominio sradicante dei flussi (penso naturalmente ai valsusini, ma non solo)? O i pochi restanti e i sempre più numerosi ritornanti alle terre dell’abbandono…
Lo so, nessuno di questi ha la “bella centralità” del conflitto di un tempo. Tutti soffrono di una qualche ambiguità. Ma per chi come noi ha fatto dell’interrogazione sul sociale il proprio mestiere è lì che si deve guardare.
E’ quello il nostro “orto di Candide”, sapendo che rinchiudersi nel proprio orto non va bene, ma restare senza orto vorrebbe dire consegnarsi al mercato.
MARCO REVELLI
foto tratta da Pixabay