La guerra, per sua specifica natura, crea partigianerie, settorialità, divisioni aprioristiche, facendo tabula rasa non soltanto delle vite dei popoli che stanno in mezzo ai contendenti, ma azzerando quasi completamente la capacità critica di discernere tra livelli di differente considerazione mentre si entra nel vivo delle questioni che, di giorno in giorno, il conflitto ci pone davanti con tutta la sua enorme asperrima crudeltà.
Nonostante ci si sbracci a più non posso, si alzino bandiere della pace e si scriva ovunque che la guerra contro l’Ucraina è un crimine contro l’umanità per il fatto stesso di essere tale, esiste sempre il semplificazionismo cerchiobottista di qualcuno e la faciloneria dicotomica e draconiana di altri che intendono per “pace” qualcosa che somigli tanto ad un sostegno armato all’Occidente da un lato, ad una considerazione di tutte le scusanti e gli alibi per Putin e la sua Russia dall’altro.
Se ci si mette di traverso e si dichiara che non si sta né con chi invia dall’Europa e dall’America armamenti agli ucraini (pur non biasimando il fatto che questi, oggettivamente, con qualcosa si dovranno difendere dall’aggressione che stanno subendo) e né, tanto meno, con l’altra voglia espansionistico-imperialista, quella putiniana, allora si rischia di divenire nemici di entrambi gli schieramenti ormai ampiamente precostituiti su preconcettualità sovrabbondanti, che tutto scavalcano e tutto comprendono.
Nulla sfugge alle presupposizioni e alle alchimie decerebranti di chi vorrebbe convincerci che non si può rimanere neutrali, passivi. Come se parteggiare per la pace fosse assimilabile alla vigliaccheria dello stare a guardare ciò che avverrà, a dimostrare senza fare concretamente nulla. Perché, dicono tanto a destra quanto in una certa sinistra sapientona, qualcosa occorre fare e la partecipazione attiva vuol dire, almeno per l’Italia, non entrare formalmente in guerra ma sostenere la lotta degli ucraini in tutto e per tutto. Anzitutto con l’invio di mitragliatrici, bombe, missili anticarro, e via di seguito.
Non è da oggi, indubbiamente, che la voglia di pace viene messa sotto accusa dagli interventisti e dai guerrafondai: per poter sostenere i conflitti e farli apparire agli occhi della gente necessari per mettere fine ai conflitti stessi, serve individuare qualcuno che rappresenti la cattiva coscienza di una ipocrisia che ha buon gioco a confondere le acque, provando a dimostrare che a parole non si batte nessuno, che le manifestazioni sono assolutamente democraticamente utili ma che, in fin dei conti, non smuovono il non-cuore degli attori del guerrafondaismo e, sostanzialmente, lasciano tutto invariato sul campo.
Là dove si muore, dove la resistenza deve essere “feroce” (Zelens’kyj dixit), è ovvio che non serve a nulla sventolare le bandiere arcobaleno o fare appello alla benevolenza del soldato che fermi il carro armato, che non tiri una granata, che non spari contro obiettivi militari e civili. Ma riducendo la discussione dei salotti televisivi e di quelli radiofonici, nonché i forum internettiani che si creano nel grande marasma anti-intellettivo del mondo social, inevitabilmente si banalizzano prese di posizione opposte che possono avere uguale dignità e che, proprio per questo, devono poter essere contestabili e criticabili in uguale modo.
La ridicolizzazione della posizione pacifica e del movimento pacifista nella sua veriegatissima ed eterogenea composizione, è la più facile ed anche la più scontata delle detrazioni che si possono erigere a sostegno dell’interventismo diretto e, se vogliamo proprio essere generosi, di quello “indiretto” dell’Italia e dei paesi europei (nonché degli Stati Uniti d’America).
Pacifismo e nonviolenza non sono degli assoluti, anche se sarebbe preferibile che lo divenissero per il bene di tutto il genere umano e di tutti gli esseri viventi del pianeta: sono fondamentali princìpi morali, sociali e politici che hanno piena dignità di esprimersi nel momento in cui un conflitto nasce e si sviluppa come il fuoco in un pagliaio. La brutalità della guerra cambia le nostre coscienze: le costringe a confrontarsi con l’evidenza di ciò che possiamo diventare tutte e tutti noi che ci consideriamo al riparo da mutazioni genetiche di questo tipo, dal tramutarci in feroci assassini perché spinti dalle circostanze, dai poteri che le delimitano e che obbligano il singolo a seguire l’istinto comune alimentato da una costrizione e coazione di vertice.
Il rifiuto di pensarsi come spietati assassini, ed il timore di rimanere imprigionati in questo lato della personalità che non conoscevamo e che pensavamo di non avere, ha bisogno di tante giustificazioni per quello che in guerra si compie e si è costretti a compiere eseguendo gli ordini superiori.
Alcuni militari hanno cinicamente scaricato le proprie responsabilità sul tavolo della Storia, asserendo di aver fatto parte di qualcosa di veramente molto più grande della loro volontà che, si presume, a quel punto fosse una innocenza e una bontà pervertita e piegata alla brutalità altrui. Altri, invece, hanno empatizzato molto di più quello che gli è accaduto e hanno fatto un percorso psicologico introspettivo, attraversando molte sofferenze, per cercare di comprendere il loro posto dentro la guerra, nelle carneficine, negli olocausti, negli stermini di donne, bambini, nelle torture e nel sadismo distribuito senza distinzione di sorte, come complemento di un orrore diffuso e irrefrenabile.
Bisogna avere rispetto per ogni dramma causato dalla guerra. Ma la guerra non è un ente astratto che si autogenera e si rigenera di conseguenza: non è un motore immobile aristotelico da cui tutto è governato e gestito. La guerra ha delle cause che gli esseri umani sostengono e che portano avanti per mettere al sicuro precisi interessi di classe, per schermare il proprio potere dalle minacce di rovesciamento e per affermare la superiorità della propria nazione rispetto alle altre.
Dobbiamo poter essere liberi di schierarci dalla parte della pace senza se e senza ma, sapendo che il costo di tutto questo sono le accuse di insensatezza, di vigliaccheria e di imbellicità che ci saranno rivolte da coloro che volontariamente scelgono di stare da una parte o dall’altra perché solo la contrapposizione realizza in qualche modo il loro significato nella e per la vita, ed anche le accuse di quelli che, certi di interpretare fino in fondo la pragmaticità del buon senso e della realpolitik, ci dipingeranno come eterni sognatori e romantici rivoluzionari armati di una penna e, tutt’al più, a sostegno di azioni civili dentro l’inciviltà all’ennesima potenza.
Eppure, anche nella Seconda guerra mondiale, c’è chi ha partecipato alla Resistenza senza prendere in mano una pistola, senza uccidere nessuno. Perché gli era stato imposto dagli eventi o, invece, proprio per scelta. Qualcuno avrà biasimato quelle partigiane e qui partigiani che si rifiutavano di uccidere ma che, allo stesso tempo, volevano fare parte in qualche modo della lotta antifascista e antinazista.
Se la Resistenza è stata un movimento veramente democratico, la base per la fondazione della Repubblica che ora è costretta dal governo ad entrare “indirettamente” in guerra, lo si è dovuto anche alla collaborazione attiva di un pacifismo che, proprio perché tale, non stava nelle retrovie a guardare chi imbracciava un fucile e lottava contro i fascisti e i tedeschi, ma, mediando tra i propri valori e la crudezza degli accadimenti, si metteva a disposizione in tutto e per tutto senza risparmiarsi i rischi che correvano tutti i resistenti.
Dobbiamo sostenere il popolo ucraino nella sua battaglia per la vita, per la sopravvivenza e per il ritorno ad un’esistenza degna di essere vissuta: le donne e gli uomini che si battono contro l’invasione russa, contro Putin e contro ogni tentativo di vedersi strappare le loro case, i loro quartieri e città, la loro terra e la loro libertà, adesso forse non hanno tempo per fare analisi politiche e accorgersi che la NATO non è migliore del potere militare che li opprime in questo momento.
Per questo la lotta per la pace è importante, perché è una equidistanza che mette in crisi ogni tipo di potere che si vuole attribuire l’esclusività dell’esportazione di una democrazia sorretta sempre dalla deterrenza delle armi e non dal libero confronto tra i popoli.
Caso mai ve ne fosse bisogno, a sostegno delle ragioni di un pacifismo attivo e non idealistico spettatore degli eventi, proprio le parole odierne del Ministro della Difesa Lorenzo Guerini sanciscono la cornice in cui si vuole inserire la “stabilità” post-bellica italiana e, quindi anche europea: quello dell’aumento delle spese militari «…è un tema che già ci siamo posti. Da quando sono ministro, cioè dal settembre 2019, il bilancio è cresciuto significativamente da 22,2 a 25,8 miliardi. E c’è stato un salto di qualità negli investimenti. Anche il contesto attuale ci impone di fare di più, non solo sul piano finanziario, ma anche sull’aggiornamento dello strumento militare».
Vale l’antico anonimo latino adagio… “Si vis pacem, para bellum“. E poi, per compensare, sarebbe bene leggersi Tacito per ricordarsi che se prepari la guerra non avrai mai, veramente, una vera pace dopo.
MARCO SFERINI
3 marzo 2022
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