La vicenda catalana è ad un punto di svolta oppure di non ritorno: dipende dai punti di vista, dalle considerazioni particolari e generali che si possono fare. Particolari se si osserva il solo rapporto tra Madrid e Barcellona; generali se si guarda il contesto europeo ed anche mondiale in cui questa regione della Spagna si appresta a debuttare come Repubblica indipendente fondata “sulla democrazia e sul sociale”.
E’ del tutto evidente che l’isolamento politico in qui si trova e si troverà Barcellona sarà la premessa di un accerchiamento repressivo magari non violento nell’evidenza delle conseguenze, ma certamente sul piano delle restrizioni commerciali, economiche e sociali.
Determinante per accreditarsi presso la pubblica opinione sarà il comportamento della popolazione: i catalani difenderanno la Repubblica proclamata ieri con un voto risicato in Parlamento? Scenderanno in piazza a proteggere le istituzioni dichiarate illegali dal governo spagnolo?
A queste domande è impossibile rispondere, ma è certo che le risposte che arriveranno con le manifestazioni che sicuramente avranno luogo nei prossimi giorni figureranno come la migliore vittoria per un movimento non violento ma deciso ad andare fino in fondo sulla via dell’indipendenza – pur violando la Costituzione dello Stato spagnolo – oppure saranno la peggiore sconfitta per la Generalitat e per la Junts pel Sì che con la Cup ha deciso di dare seguito al risultato del controverso referendum fatto di violenze, bastonature, violazioni dei seggi nel tentativo (fallito) di scoraggiare i catalani al recarsi ai seggi.
Qui occorre analizzare un aspetto molto interessante di tutta la questione: la capacità del movimento indipendentista di non esasperare i toni ma di lasciare che siano gli altri a farlo e, in particolar modo, il giusto continuo appello a mantenere la calma, a manifestare sempre e solo pacificamente per dimostrare al mondo e prima di tutto alla Spagna che la Catalogna non vuole ribellarsi con la forza ma vuole ghandianamente costruire una indipendenza fatta di disobbedienza civile.
Questo è un primo dato che tutto il mondo ha potuto constatare e che ha messo Mariano Rajoy in seria difficoltà pur avendo dalla sua parte il diritto costituzionale spagnolo.
Se osservassimo il tutto sul piano legislativo è evidente che ogni mossa fatta da Carles Puigdemont e dal suo governo è chiaramente illegale perché la Catalogna è una regione autonoma della Spagna. Da secoli e secoli. Solo poche volte se ne è separata e per pochissimo tempo e non per volontà sempre dei catalani.
Forse la separazione più lunga è stata quella operata da Napoleone quando ne fece per due anni un’entità staccata dal Regno di Spagna e poi, dopo il 1812, la inglobò nell’Impero francese che andava dalla Valle del Ebro fino alle Province Illiriche, da Roma fino all’Olanda.
Ma si può veramente incastonare la lotta indipendentista in un quadro legalitario? E’ possibile pensare che uno stato monarchico possa concedere un giorno, in un percorso del tutto legale, il diritto alla Catalogna di staccarsi da Madrid? Molto improbabile. Solo una repubblica federale spagnola avrebbe potuto evitare uno scontro così diretto, muscolare tra i due governi: centrale e regionale. Ma la repubblica in Spagna non c’è dal 1939 e l’autonomia catalana ampliatasi sotto il governo Zapatero è stata svuotata di senso dai governi del Partito popolare.
E’ pur vero che la spinta indipendentista ha trovato impulso non sulla base di una rivendicazione nazional-popolare, fondata sulla cultura, sulla differenza linguistica o su altri aspetti della vita dei catalani, bensì sulla necessità di riavere un controllo dell’economia della regione.
Facile è il paragone con le richieste di Lombardia e Veneto che, con due referendum dai quesiti tanto vuoti quanto riempibili con qualunque richiesta (“Volete voi maggiore autonomia per la Regione Veneto?”, si potrebbe anche rispondere “sì”, un assenso privo però di contenuti proprio come la domanda fatta…) e, infatti, elevati a domanda di “statuto speciale” per il Veneto.
Una richiesta politico-amministrativa non contenuta nel referendum, desunta dal presidente della Regione Zaia sulla base di sue convinzioni personali, senza alcun riferimento al testo del quesito ampiamente bocciato dalla Corte Costituzionale e ridotto per l’appunto ad una domanda priva di senso perché – è bene sottolinearlo ancora – priva di contenuto specifico.
Ma le vicende catalane e lombardo-venete non sono paragonabili anche se qualcuno afferma che, avendo la Junts pel Sì violato una Costituzione di Stato, allora se anche il Veneto chiedesse l’indipendenza si dovrebbe essere d’accordo nel battersi per la libertà del “popolo veneto” visto il precedente della Catalogna.
E’ una simmetria bislacca: intanto perché il Veneto non ha una storia di ricerca dell’indipendentismo come quella della Catalogna. Semmai è il contrario: nel Risorgimento i veneti cercarono il distacco dall’Impero Austro-Ungarico per reclamare la loro italianità. Si possono citare molti episodi, certamente il più rilevante è la costituzione della Repubblica di San Marco sotto Daniele Manin nella turbolenza del biennio 1848-1849.
Inoltre, le cosiddette “spinte indipendentiste” del veneto sono attribuibili solo al movimento leghista variamente inteso e atomizzato da scissioni che hanno puntato ad intestarsi la paternità di un sentimento popolare che non è una richiesta popolare.
Il referendum di Zaia è tutto e niente e non può certamente essere una cartina di tornasole per valutare la voglia di separazione dalla Repubblica Italiana da parte dei veneti.
Nonostante gli errori commessi da Puigdemont e dal movimento indipendentista catalano, ciò che accade a Barcellona merita il rispetto di una distaccata osservazione, sapendo bene che non siamo davanti alla farsa leghista di richieste di autonomia generiche e vuote, ma siamo innanzi ad un evento storico perché, pur da parti differenti, coinvolge un popolo intero e che sarà studiato come sono stati studiati tutti gli altri tentativi di rendere indipendente la Catalogna.
MARCO SFERINI
28 ottobre 2017
foto tratta da Pixabay