Da mesi, forse anche da qualche anno, Confindustria è alla ricerca di un interlocutore degno di rappresentare la progressiva svolta iperliberista (e iperliberticida) culminata con la designazione di Bonomi a presidente dell’associazione padronale. Non si può certo dire che sia semplice trovare oggi, in un pullulare di autocefali interpreti del disegno imprenditoriale tanto a destra quanto a sinistra, il leader capace di amalgamare le forze, di dare quella rassicurazione ai mercati che sia, in sostanza, espressione di una sintesi tra vocazione privatista dell’economia, cultura delle istituzioni e capacità di mediazione con le parti sociali.
Miracoli del genere, se li si ricerca nel tempo, li si trova al tempo della Democrazia Cristiana e del Pentapartito, quando il bilanciamento delle posizioni politiche tra centrismo e socialdemocrazia si esprimeva da un lato nell’equilibrio di governo e dall’altro nel confronto serrato con una opposizione presente in tutto il Paese su più livelli: politicamente dal PCI e anche da forze minori; socialmente dai sindacati; culturalmente dall’ARCI e dall’ANPI, nonchè dai tanti movimenti spontanei che via via crescevano in Italia col progredire dell’espansione dello stato-sociale, dei diritti tanto del mondo del lavoro quanto della scuola, delle collettività e dei singoli cittadini.
Le 385 pagine del testo confindustriale, intitolato con immodesta enfasi “Il coraggio del futuro“, sono il manifesto del partito liberista per eccellenza in una Italia dove proprio la dissolvenza dei confini ideali (ed ideologici) ha lasciato spazio all’iniziativa individuale, così soggettiva, così maggioritaria – tanto elettoralmente quanto letteralmente parlando – da non trasmettere alcuna visione complessiva dello stato di cose in cui viviamo e, pertanto, la sensazione che si prova è quella di un altalenante proseguire in un limbo delle proposte.
Una navigazione a vista, cui i padroni vogliono rimediare per tempo, vista l’accelerazione della crisi economica dettata dagli scrosci improvvisi di pioggia di virus, dalla perturbabilità imprevedibile del Covid-19. Lo fanno scrivendo ad esempio usando il termine che va di moda in televisione, sul web e ora anche tra i blasonati del mondo della proprietà privata dei mezzi di produzione: resilienza. La riferiscono ad un piano europeo di adeguamento allo standard attuale della produzione, della contrazione dei mercati che va vista tanto nel suo insieme continentale quanto nello specifico nazionale.
Si mettono in guardia da sé stessi e lanciano un messaggio preciso: stiamo attenti – si dicono i padroni – dobbiamo avere quella capacità di adattamento che ci permetta di gestire le particolarità del mercato italiano ma non si deve fare alcun passo indietro rispetto all’amalgama del contesto europeo: «La Commissione dovrebbe imporsi sugli Stati membri inadempienti, esercitando in maniera maggiormente assertiva le prerogative che il ruolo di Guardiano dei trattati le conferisce».
Massima severità verso i governi, si intende, a volte interpreti di un lassismo che non può essere tollerato se si tratta di rispetto delle scadenze economiche, primo bastione della difesa dei profitti a tutti i costi: anche a quelli di mettere a repentaglio la salute pubblica.
Serve più decisionismo, tuona Confindustria. Da Roma a Bruxelles, le istituzioni sono aggrovigliate nelle maglie della burocrazia, del rispetto delle regole che sono garanzia di diritti democratici visti come intralcio alla libera dinamica dei mercati e alla velocità con cui si muovono le transazioni per nuovi investimenti che devono – si intende – essere sempre più svincolati da ingombranti tassazioni.
Nel nome della maggiore uniformità del mercato, del livellamento della concorrenza interna all’ambito europeo, i padroni ritengono uno spreco di energie il confronto tra i vari paesi dell’Unione. Sempre richiamando la “democrazia” come elemento costitutivo anche di un rapporto economico fra gli Stati membri, Confindustria tiene a precisare che così facendo è difficile creare una “compatibilità politica” nella UE. Occorre invece dotarla «di un vero e proprio potere esecutivo sul bilancio e affidare un reale potere di controllo al Parlamento europeo».
Quando si arriva al capitolo della “regolamentazione delle dinamiche nazionali in tema di lavoro“, l’Europa viene sempre e comunque subordinata alle variabili del mercato: in base alla funzionalità che dimostrerà di avere in tal senso, allora potrà trovare considerazione anche la tutela dei rapporti sociali, il mondo del lavoro veramente produttivo.
Ma, si intende, senza lasciare alcun adito ad un capovolgimento tanto del punto di vista (politico) dei singoli governi nazionali quanto di quello (economico) delle istituzioni europee. Del resto, che altro potrebbe mai scrivere una associazione che tutela la classe dominante? Nessun stupore, ma la conferma che, pure in tempi di pandemia, non c’è spazio ad alcuna resilienza se non quella che modelli quanto più perfettibilmente sia possibile l’interesse privato al complesso economico globale, riducendo l’impatto del Covid-19 sulla produttività e sull’accumulazione di capitali.
L’indipendenza del mercato non è nemmeno messa nelle ipotesi: nessuna condivisione di responsabilità con le scelte politiche che, anzi, sono dettate proprio dall’andamento esclusivo dei mercati. Tutto il resto viene di conseguenza. Prima il mondo, l’Europa e l’Italia si adattano alle esigenze del profitto e dei padroni; poi verranno le briciole per i miliardi di salariati e di sfruttati che subiscono la pandemia senza alcuna protezione finanziaria, con il rischio di assistere ad un impoverimento di massa che viene quasi calcolato come strutturale, endemico, sic stantibus rebus…
Verrebbe da aggiungere: …mala tempora currunt. E aggiungiamocelo, visto che, scorrendo le altre pagine del libro confindustriale, se ne trae qui sì una visione di insieme che alla politica del governo manca, così come manca agli assi di precario equilibrio franco-tedesco, mentre i mercati orientali premono sempre più alle porte dell’Europa (e dell’Africa).
In estrema sintesi, Confindustria chiede che i propri associati – più latamente tutta la classe padronale – possano avere quella libertà di sfoltimento degli organici che oggi non hanno. La libertà di licenziamento diventa, in questo caso, la conseguenza di una premessa maggiore antisociale: la presenza del coronavirus. E’ colpa sua se a lorsignori tocca chiedere misure così estreme, mica sarà un profittamento della situazione di emergenza sanitaria in cui ci troviamo! Non lo pensate, malevoli che non siete altro!
E’ quello che nel loro libro chiamano il “modello impresa“: un nuovo modello ancora rispetto a quelli del recente passato. Un modello che si richiama alla straordinarietà dei tempi solo in relazione al sempre minore controllo da parte delle organizzazioni sindacali, dello Stato stesso sui limiti dello sfruttamento della forza-lavoro, sulla frammentazione dei diritti, sulla loro pulviscolizzazione.
Un modello che si richiama alla straordinarietà dei tempi del Covid-19 per rimettere tra i centri di gravità permanente della società una scuola che sforni cervelli da sfruttare, oltre alle braccia che già sfrutta ogni giorno. Del sapere non gliene importa praticamente nulla ai signori imprenditori: la cultura mortificata, degradata a supporto delle innovazioni tecnologiche non per il bene comune, ma solo per reggere il ritmo della concorrenza, per sostenere lo sforzo privato a tutto scapito della maturità individuale e sociale degli universitari.
Non si pretende soltanto più di insegnare quella “morale” del capitale che veniva cantata da Paolo Pietrangeli; si chiede di inserire letteralmente il sistema scolastico nella matrioska delle esigenze di un liberismo spinto oltre ogni limite. Il piacere della curiosità, lo stimolo del dubbio, la scoperta delle idee e del pensiero possono dimenticarsi di assumere connotazioni di critica: meno ve ne è e più ne guadagna il sistema capitalistico che tenta di adattarsi ai tempi del Covid-19.
Un modello di impresa che affida allo Stato la “cura” dei lavoratori, tenendosi alla larga da qualunque impegno che contempli la tutela degli sfruttati: alle casse private tutto il profitto, a quelle pubbliche tutti gli oneri. Il rischio si assottiglia sempre più e pazienza se l’indebitamento tocca a tutti. In fondo, le perdite dei capitalisti sono socializzabili, si sa. Fanno parte del “costo collettivo” del sistema, mentre i guadagni restano ben protetti, mentre con la spregiudicatezza secolare che deve contraddistinguere la classe degli sfruttatori, si avanzano richieste di detassazione degli utili, di agevolazioni fiscali. Nel nome della pandemia, questo ed altro.
Se vi capitasse di leggere tutto il libro di Confindustria sulla programmazione del futuro a misura di padrone, di profitto e di accumulazione moderna del capitale, troverete pochissime volte la parola “società“. Non è un caso. Ogni volta che ci si richiama al sociale, si deve per forza offrire un punto di vista nettamente alternativo a quello del mercato. Che non è società, ma antisocietà. Non è umanità, ma il suo esatto contrario.
MARCO SFERINI
14 ottobre 2020
Foto di Free-Photos da Pixabay