L'”apruebo” non ha vinto. E con lui ha perso un’occasione straordinaria il Cile di avere finalmente una Costituzione progressista, evoluta, al passo coi tempi di quelle democrazie che intendono fare un passo sempre in avanti rispetto ai tentativi di restaurazioni conservatrici, oligarchiche, sovraniste e parafasciste che una certa destra ha sempre in mente, coltiva con costanza e non dismette mai dal suo armamentario di sostegno ai privilegi delle classi più facoltose (da cui, del resto, è ampiamente finanziata).
Il “rechazo” invece vince col 62% dei voti, e vince ovunque: da nord a sud. Persino in quelle zone della capitale dove, storicamente, la sinistra ha avuto la maggioranza dai tempi di Allende e, immediatamente dopo la dittatura sanguinaria di Pinochet, è tornata ad averla e a conservarla. Non si può lucidamente fare una analisi di questa sconfitta a caldo, appena poche ore dopo il voto e, in particolare, stando a migliaia di chilometri di distanza, senza vivere concretamente la politica cilena.
Ma se ne può, quanto meno, trarre spunto per operare un ragionamento sul perché, in certi frangenti, si creino le condizioni tali affinché una trasversale convergenza fra forze di destre e forze di centrosinistra impedisca al progressismo di fare dei passi necessari per una modernizzazione dei paesi in particolare più poveri, di quelli più vessati dagli imperialismi, di quelli che hanno trascorso parte del Novecento a confrontarsi con dittature militari che hanno causato la morte di decine di migliaia di persone, scomparse nel nulla: i “desaparecidos“.
Se seguiamo una mera logica politica, dovremmo pensare che il simile riconosce il suo simile e che, quindi, tutti i progressisti dovrebbero sostenere quello che di progressista si materializza in una proposta come quella di una costituzione che riconosce tutta una serie di diritti fondamentali (a cominciare da quelli dei popoli precolombiani da sempre oggetto di disprezzo e ghettizzazione, tanto più con il regime fascista di Pinochet) prima negati con un apriorismo pregiudiziale che era il dominus della politica dittatoriale.
Ma la logica in politica obbedisce a ragioni che logiche non sono: non siamo nel campo della matematica, dove la certezza è il calcolo stabilito dall’unità numerica fino all’incommensurabilità.
Qui le tattiche di basso livello restano prigioniere di strategie ancora peggiori: la tendenza del centrosinistra a distaccarsi da quel cambiamento radicale che interrompe la consuetudine sociale e le regole del mercato che proteggono le grandi industrie, l’economia consolidata e la finanza che vi poggia sopra, vale tanto in Cile quanto in Italia, tanto nelle Americhe quanto in Europa.
La ragione fondamentale che impedisce al centrosinistra di essere completamente progressista è data dal fatto che non è solo sinistra. Essendo anche “centro”, ebbene deve obbedire alla sua natura, al suo scopo, alla ragione per cui intende mettere insieme le istanze sociali con quelle del ceto medio e dell’imprenditoria.
Un compromesso innaturale, che sdoppia le intenzioni, le rende prive di significato, le allontana da quel giusto inquadramento anche ideologico che determinerebbe una comprensione maggiore da parte dell’elettorato nel momento del voto ma, pure, nella quotidianità di una vita politica in cui si riesca a distinguere chi difende davvero le ragioni della povera gente dai privilegi dei ricchi.
Quanto avvenuto in Cile obbedisce a questa tendenza, a questa distonia politica che si riflette, con immediatezza, nella società e ne altera i presupposti di particolarità, le differenze civili, culturali, facendo saltare gli schemi della lotta di classe, perché la classe degli sfruttati si confonde nel voto con quella degli sfruttatori (e viceversa, ma in questo caso con consapevolezza e piano ben orchestrato…) e dall’unione di questi interessi contrapposti nascono i mostri di una ingegneria carsicamente golpista che opera per la destabilizzazione di intere nazioni.
Quanto è accaduto nella terra dei mapuche e di Allende, col sostegno delle televisioni compiacenti e dei social in cui le “fake news” sono praticamente esplose e hanno rigogliato in ogni dove, risente ovviamente delle particolari congiunture sociali, economiche e politiche ma, ugualmente, si inserisce in una tendenza globale ad esercitare sui tentativi di evoluzione progressista quel contenimento che impedisce una saldatura altrettanto estesa da poter mettere in pericolo l’instabilità del sistema liberista.
Ancora una volta la teorizzazione dello Stato politicamente forte, in cui non trovi spazio la piena attuazione della difesa dei beni comuni e dei diritti egualitariamente intesi e scritti in una costituzione innovativa come quella appena bocciata in Cile, si afferma come uno dei capisaldi del moderno liberismo.
Un punto di principio che è un programma economico, una barriera che non intende essere oltrepassata; pena l’affermazione di una tendenza quasi rivoluzionaria, di un mutamento così inarrestabile che travolgerebbe gli assetti di uno status quo che, visti i tanti stravolgimenti mondiali in atto (pandemia, guerra, crisi climatica e ambientale), non può permettersi altri sobbalzi.
La complessità dei cambiamenti, del resto, non è esclusiva dell’ambito puramente economico, preso a sé come se da struttura potesse essere una sovrastruttura qualunque. E’ proprio a partire dalle velocissime turbinazioni del mercato che la politica nazionale (ed internazionale) decide come posizionare le sue pedine per difendere interessi di pochi e farne subire le conseguenze alle masse popolari.
Il primato della politica sull’economia non è di questo mondo, perché questo mondo è del capitalismo. Non esistono grandi eccezioni di sorta, se si eccettua il sistema cubano e qualche paese come il Vietnam o qualche virtuoso esempio di socialdemocrazia entrato da poco nelle grinfie della NATO, complice lo spauracchio della guerra degli opposti imperialismi sulla pelle degli ucraini.
Dunque, la sconfitta dell'”apruebo” sulla proposta di costituzione nuova del Cile, che mettesse finalmente la parola fine ad ogni retaggio lasciato dal generale golpista, dal criminale e assassino che fece torturare e uccidere migliaia e migliaia di oppositori politici, di semplicissimi cittadini cui non toccava in sorte di poter pensare e vivere in piena libertà, è, se osserviamo bene tutta la storia, uno dei tanti episodi di uno sceneggiato melanconicamente triste e lugubre in cui si ripetono i colpi di scena sempre dallo stesso tenore.
Per preservarsi come sistema del nuovo secolo, per affrontare le crisi di sovrapproduzione e per sostenere gli impatti degli imprevisti pandemici, oltre che delle guerre calcolate a tavolino per ridisegnare la mappa mondiale dei domini su petrolio, gas e quant’altro, il capitalismo liberista lascia ai popoli un margine esiguo: quello che possa permettere l’affermazione, soprattutto dalle forze che gli sono ovviamente più devote, di vivere il tutto in un regime di democrazia addirittura diretta.
Ciò che conta è salvare le apparenze. Sostanzialmente, poi, i processi che governano l’economia influenzano (e ne sono influenzati) le scomposizioni e le ricomposizioni di alleanze politiche che suggeriscono, da un lato, ed obbediscono, dall’altro, ai dettami della grande finanza, delle grandi potenze tornate ad essere egemoni nella contesa mondiale.
Il multipolarismo, per quanto sia l’espressione di una uniformità economica mondiale, è tale perché consente di riconoscere le differenze sostanziali che si formano tra i popoli che sono interconnessi da una maggiore facilità di scambi commerciali, di reti anche continentali che creano le direzioni in cui si muovono le grandi migrazioni: laddove esiste un barlume di sostenibilità della sopravvivenza, lì si innesta il percorso delle masse che fuggono dai precipizi disumani creati dalle guerre, dalle carestie, dalla fame endemica che è lo stigma con cui vengono classificate la dignità e l’esistenza di ciascuno.
Tutto questo, però, non deve indurre in un errore grossolano: la tentazione di considerare il processo politico ininfluente ai fini del cambiamento e, parimenti, il parlamentarismo, la funzione istituzionale come una mera appendice della dominazione liberista. Cambiare diventa possibile nella misura in cui vengono operate delle forzature e, da che capitalismo esiste, da che la lotta sociale esiste, è appunto dal confronto delle classi sociali che emerge o affonda una società.
La presa di consapevolezza politica è non di meno importante della coscienza sociale, del riconoscimento degli altri in sé stessi perché uguali per collocazione proprio economica nella comunità in cui si vive. Ritenere che la democrazia sia infruttuosa, inutile, soltanto un dispendioso modo per organizzare una nazione che potrebbe essere altrimenti governata da plenipotenziari del capitale, monocraticamente (quasi monarchicamente) è consentire al liberismo di totalizzare il suo dominio e di non avere nemmeno più innanzi un avversario da affrontare.
Il progressismo deve poter vivere politicamente, socialmente, sindacalmente e anche civicamente: deve essere espressione di tutte queste declinazioni e deve potersi alimentare di intuizione e voglia di cambiamento radicale. Non ci si può accontentare delle prebende delle classi dominanti. Bisogna sfidare tutti i preconcetti che i poveri sono costretti a subire dalla narrazione imprenditoriale, iniziando a scorgere quella grande oggettiva elementarità che è la creazione della ricchezza da parte dei lavoratori e non dei padroni.
I centrosinistra di mezzo mondo potranno anche raccontarci che è dal compromesso tra le classi che viene fuori un nuovo sviluppo condiviso, una armonia. Ma noi dobbiamo sapere che non è così, che la ricchezza del singolo è possibile soltanto se si valorizzano i beni comuni: a cominciare da quelli elementari, a cominciare da quelli delle minoranze. Come i mapuche in Cile.
Il cammino è lungo ma, se non saremo noi a piegare questo sistema, ci penserà un giorno la furia della natura. Le avvisaglie le abbiamo ogni giorno sotto i nostri occhi. Prima della catastrofe globale, dal Cile all’Italia, dalle Americhe all’Europa, facciamo quanto ci è possibile, ed anche di più, per creare quel socialismo del nuovo millennio di cui tutti abbiamo, anche se non lo sappiamo, urgenza e bisogno.
MARCO SFERINI
6 settembre 2022
Foto di Osvaldo Castillo