Il compleanno dell’assenza

Musica. I 50 anni dello storico primo album di Claudio Lolli, che ha saputo trattare nell'arco di tre decadi i più profondi temi dell'essere umano

Un Blob andato in onda  qualche mese su Rai 3 ci ha mostrato un Claudio che, con voce imberbe,  si auto-presentava affacciato ad un balcone della periferia di Bologna. Nessuno di noi aveva mai visto quel documento, quella testimonianza diretta, probabilmente “estorta” alla sua timidezza da qualche discografico. Tutto lascia presumere che la data di quelle riprese fosse il 1972, anno di uscita di Aspettando Godot. Ebbene, oggi quel disco compie cinquant’anni.

Una manciata di canzoni adolescenziali (quasi una risacca intimista sull’onda lunga del ’68), che circolarono attraverso insondabili circuiti sotterranei e carbonari, diventando immediatamente conforto e croce dei tanti giovani introversi, in conflitto di coscienza,  fuori dagli schemi e poco inclini al conformismo dell’Italia piccolo-borghese dell’epoca. Claudio  raccontava spesso della genesi di quella che lui pensava sarebbe rimasta l’unica esperienza discografica.

La Emi lo convocò per registrare, ufficialmente, “dei provini” con le sue canzoni. Un tecnico attempato e in camice bianco gli mise un collare di polistirolo intorno al collo e due microfoni posizionati uno per la voce e l’altro per la chitarra. L’impressione è che quella registrazione si svolse in modalità “bona la prima”. Terminata la sessione Claudio fu congedato con un “le faremo sapere”. E in effetti gli fecero sapere, alla vigilia della pubblicazione, che quei “provini” erano diventati un long playng.

All’ascolto, Claudio scoprì anche che la sua voce e la sua chitarra si erano arricchiti di qualche abbozzo di arrangiamento: un basso ed una spolverata di violino o flauto qua e là suonati da anonimi turnisti, tra i quali, si venne poi a sapere, c’era anche un giovanissimo Ares Tavolazzi.

Fu il primo della serie di dischi bellissimi che tutti conosciamo, il più ingenuo, il più acerbo ma anche (forse) il più amato dalla comunità lolliana, una comunità che cominciò ad annusarsi  e riconoscersi in maniera identitaria proprio sui versi cantati di quell’lp…

Il mio primo incontro con la Poesia e la musica di Claudio è avvenuto con il disco degli “zingari felici” e, solo dopo con un percorso a ritroso, ho scoperto quel ragazzo che cantava  le  angosce, i dubbi, gli scoramenti, l’ introversione dei tanti che, come me, erano costretti a registrare quotidianamente la distanza personale e innata nei confronti di coetanei gaudenti et à la page.

Quella voce acerba era la voce di un rabdomante che cercava i propri simili ed i propri fratelli nel mondo che vivacchia in superficie.

La “mia” copia era stata acquistata usata  dal solito amico Mario e portava i segni di qualche giovane chitarrista che, sul testo di Borghesia, aveva annotato degli accordi (sbagliati).  in corrispondenza della strofa di apertura di Quelli come noi c’era un graffio che faceva saltare la puntina del giradischi tra le parole “troviamo” e “diciamo” tagliando di netto “e ci di…” con un effetto di questo tipo: “Io e un mio amico. Delle volte ci troviamo. E…ciamo che…”

Ma i difetti meccanici nulla erano in confronto ai piccoli errori di registrazione che nessuno si prese la briga di correggere o far ricantare, come quando “riempiono” si trasforma in “riempono” (“la gola…”). In uno dei nostri viaggi interminabili lo feci notare a Claudio. Lui mi rispose serissimo: “Ma come? Non sai che si può dire in tutti e due i modi? “

Mi guardò, io guardai la “camera” immaginaria che seguiva le nostre vicende di Stanlio e Ollio , poi: stacco sulla sua faccia e…scoppio di risa… La pace con quel disco Claudio la fece, molto probabilmente, nel 1977 quando, in Autobiografia industriale, cantava: “io a quel tempo stavo ancora aspettando Godot […] Ma Godot non è mai arrivato Si fa le cose sue Ed è meglio così, certo, per tutti e due”

Quando nei concerti gli chiedevano Michel o Godot cambiava discorso, tergiversava in un processo di auto-snobismo: ”Ma ho fatto altre cose oltre a Michel e Godot…”. Eppure, in età avanzata, in una notte di fumi che svaniscono, mi sembrò (o forse lo sognai), sentirlo esclamare in posa Flaubertiana: “Godot c’est moi!”

Forse è vero, forse Claudio ci ha preso in giro tutti: Godot era lui, come il “Verbo” che, in un racconto di Borges, si transustanzia nella persona di Giuda. Forse Godot è stato per lui l’alibi rassicurante dell’assenza.

Lui sapeva che i capolavori erano altri (Gli zingari, Disoccupate le strade, Extranei… ad esempio) ma in fondo quel disco con le cinquemila lire era la sua prima creatura, quella dalla quale forse prendere le distanze per andare oltre, certo, ma anche quella più intimamente amata, più sofferta, più solitaria, più fragile… Amata senza remore da lui, da noi, da tutti “quelli come noi”… E allora buon compleanno Godot, ovunque tu sia…chiunque tu sia.

PAOLO CAPODACQUA

da il manifesto.it

foto: copertina di “Aspettando Godot”

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