C’è un’Italia che da pochi decenni è stata costituita in regno: uno Stato unitario che è estensione di quello subalpino dei Savoia, non una repubblica centralista (ma rispettosa delle autonomie) come voleva Mazzini, nemmeno una a carattere federale come propugnava fin dalle giornate milanesi Carlo Cattaneo.
E’ una monarchia che ha sostituito altre monarchie, che si è imposta grazie al favore di una serie di circostanze che hanno determinato la fine di ducati, regni e, unico nel suo genere al mondo, di un potere teocratico e temporale che ha diviso la penisola italiana in due tronconi per un millennio.
C’è un’Italia poi del dopoguerra, quella grande e mondiale, la prima cosiddetta nella Storia dell’umanità: è un Paese ferito, umiliato, impoverito e maltrattato dalle sue classi dirigenti. Dopo Caporetto, Vittorio Veneto e il Piave, i soldati tornano alle loro case senza alcuna prospettiva di futuro. Nella migliore delle realtà hanno ancora tutte le loro braccia e le gambe, gli occhi e sono vivi.
Nella condizione di mezzo sono mutilati (e sono veramente tanti, perché la “grande guerra” è grande davvero in ogni senso, anche nelle carneficine e nelle amputazioni fisiche che provoca) e in quella peggiore, nemmeno a dirlo, ovviamente sono morti e lasciati sui campi di battaglia. Gli stati maggiori del Regio Esercito Italiano hanno pensato dapprima di combattere come se si vivesse in pieno ‘800 e hanno sottovalutato l’importanza di nuove armi, di nuovi equipaggiamenti.
Dopo la disfatta che ha aperto la via verso Venezia, la riorganizzazione è stata repentina e, per questo, è costata alle casse dello Stato un bel po’ di soldi. L’industria bellica se ne è naturalmente avvantaggiata, il bilancio del governo, prima di tutto economico e poi anche politico, è sul piano del rafforzamento degli aiuti alla popolazione un vero disastro. Al pari di Caporetto.
Nonostante i proclami di D’Annunzio e l’avventura della Reggenza del Carnaro, la vittoria resta anch’essa “mutilata” e, con essa, lo sono pure i conti delle famiglie: si fa fatica a mangiare pranzo e cena, mentre gli aristocratici e i borghesi si possono permettere tre pasti al giorno, sfavillanti vestiti, apertivi eleganti ai caffè di Torino, Milano, Firenze, Roma.
La crisi politico-strutturale del giolittismo diventa evidente quando il liberalismo borghese viene battuto nelle urne in quel 1919 che diventerà uno spartiacque tra l’Italia post-unitaria e quella che, purtroppo, diverrà l’Italia anche post-democratica.
Federico Fornaro, in un lavoro di sintesi tra l’analisi storica, statistica, politica ed anche dai tratti antropologici del periodo in esame (quello del sottotitolo “L’ascesa al potere di Mussolini (1919-1922)“), ci consegna con “Il collasso di una democrazia” (Bollati Boringhieri, 2022), un profondo esame di critica tanto della nascita della dittatura fascista quanto del prologo che la determinò e che, a ben vedere, ingannò molti degli attori delle istituzioni e del parlamentarismo liberale di allora.
Si è formata, nel corso degli anni successivi alla morte di Antonio Gramsci, una corrente interpretativa della critica del grande intellettuale comunista nei confronti del movimento fascista, che sviliva la piena consapevolezza che egli aveva del portato di quella data fase storica, delle sue implicazioni tanto sulla politica nazionale quanto sulla pretesa riorganizzazione dello Stato italiano.
Altrettanto, però, non è avvenuto per quella che invece fu una vera sottovalutazione da parte di Giovanni Giolitti del pericolo evidenziato dalle scorribande delle camicie nere in tante parti d’Italia.
Probabile che questo parallelismo, a dire il vero largamente improprio anche per l’allora capo del governo, non si sia realizzato per il differente approccio culturale e politico dei due: Gramsci vede nel fascismo – se possiamo sintetizzare – il sovversivismo della classe dirigente che approfitta del mussolinismo per riorganizzarsi ed estinguere il pericolo dell'”onda rossa“, dopo l’occupazione delle fabbriche e dopo l’avanzata socialista nel 1919.
Giolitti, dal canto suo, vuole letteralmente sfruttare quel pericolo eversivo, quel fascismo che piomba alle riunioni sindacali e bastona, incendia le sedi confederali del lavoro, si avventa contro socialisti, comunisti, popolari.
Vuole “costituzionalizzarlo“, “parlamentarizzarlo“, farlo rientrare nei ranghi di un formalismo borghese che Mussolini e le sue squadracce non accettano: si tratta del fascismo della prima ora, quello ancora sociale e che, tuttavia, per arrivare al governo del Paese, non è molto lontano da una mutazione genetica che lo condurrà al compromesso come cifra costante dell’azione politica per tutto il ventennio successivo.
Fornaro utilizza il metodo storico con molta cautela, anche perché siamo di fronte ad argomenti che sono oggetto di attacchi revisionistici sempre più diffusi, ancora di più nel centenario della marcia su Roma, ancora di più mentre un sentimento popolare di insofferenza verso il dilagare del disagio sociale, a fronte della crisi economica, pandemica e bellica di questi anni e mesi, si fa proposta politica nel governo Meloni, in una destra che, eclissata la mediazione liberale del centro berlusconiano, prova ad essere di lotta e di governo al tempo stesso.
Ma questa volta da sola.
Ci sono delle verosimiglianze tra la percezione comune della novità rappresentata dal nazionalismo del 2022 del conservatorismo eversivo, che pretende la trasformazione presidenziale della Repubblica, e quel quadriennio di inizio ‘900 in cui il fascismo prese anima prima e corpo poi per imporsi come nuova stagione politica di uno Stato italiano che passò dall’essere “Paese” ad essere “Nazione“.
La Prima guerra mondiale non era stata sufficiente a risvegliare la “patria immortale” cantata dai fascisti negli anni successivi. Nemmeno l’avventura dannunziana di Fiume era stata poi così dirimente nel determinare una espansione delle incoscienze populiste.
La maturazione della crisi economica – altro elemento di affinità con l’oggi in cui ci troviamo a vivere – aveva consentito ad un partito che sembrava ingestibile solo sul piano dell’ordine pubblico, per la spregiudicatezza con cui esercitava la sua violenza diffusa, di entrare a pieno titolo tra quelli riconosciuti dalla legalità, dalla politica ufficiale, dallo Stato e, per ultima ma non poi così ultima, dalla monarchia dei Savoia.
Sulla mancata firma dello stato di assedio per la capitale, proposto dal Presidente del Consiglio Facta al re Vittorio Emanuele III, esiste una letteratura storica molto ampia e interessante.
Se si deve poi andare a sintesi, si dovrà concludere che il sovrano non fece radunare migliaia di soldati attorno a Roma non perché temesse quella “guerra civile” che paventò nelle memorie e nelle dichiarazioni che rilasciò in seguito, ma perché la volontà della monarchia era di assecondare ciò che la classe dirigente padronale ed agraria ormai sosteneva da mesi e mesi, dopo aver abbandonato i liberali al loro destino.
Mussolini non appare ancora come quell'”uomo del destino“, quel “duce” che diventerà presto per tutta l’Italia e per il mondo intero. Ma, certamente, è – come Giolitti pensava – un’ottima occasione per sparigliare le forze socialiste e comuniste, per dividere la classe operaia e le sue lotte, per ridurre il potere contrattuale del sindacato.
Di là, ad est, c’è il grande gigante rosso russo. C’è il bolscevismo che è – giustamente – nemico tanto dei fascisti quanto dei liberali. Fa paura, perché parla di rivoluzione mondiale, di “repubblica” ovunque, di sovvertimento di un ordine costituito che non risparmierebbe nessun privilegio.
Allora occorre mettere ai ripari tanto la borghesia imprenditoriale quanto la monarchia. La saldatura degli interessi economici e del potere istituzionale è pressoché totale.
Ed il movimento di Mussolini casca come il cacio sui maccheroni in un momento in cui il liberalismo è avvitato su una crisi che non lo rende affidabile, mentre il popolarismo di don Sturzo è visto ancora con sospetto, nonostante il tentativo di conciliazione tra il magistero ecclesiale e il laicismo di una Italia che ha in Campo de’ Fiori eretto la statua severa a Giordano Bruno.
Il fascismo servirà anche a questo: a pacificare i rapporti tra Stato e Chiesa. E se sia stato un fallimento del giolittismo, al pari della sottovalutazione del fenomeno autoritario che in potenza si annidava dentro l’oscurità del nero delle camicie e delle teste di morti che erano appuntate sugli orbaci, è difficile poterlo affermare con certezza. Tanto più se questa certezza deve, e non può non essere, storica.
Nel capitolo che riguarda le traversie del movimento socialista, del PSI diviso nelle correnti massimaliste, comuniste unitarie e concentrazioniste, ciò che più colpisce storicamente e politicamente parlando è la quasi completa assenza nel Congresso di Livorno di una discussione che riguardasse le violenze del fascismo e il fascismo stesso per questa sua manifestazione plastica di una politica di aggressione, di intimidazione e di sopraffazione totale.
E’ difficile immaginare Gramsci, Terracini, Tasca e persino Bordiga completamente avulsi dalla realtà, tutti immersi nel pur importante dibattito sull’internità o meno del PSI (che avrebbe dovuto cambiare nome secondo i 21 punti redatti da Mosca come condizioni non negoziabili per l’adesione alla III Internazionale comunista) nel grande proscenio mondiale della lotta al capitalismo e alle socialdemocrazie che avevano tradito la classe lavoratrice.
E’ assai probabile che la scissione tra socialisti e comunisti si sia consumata in un clima politico che aveva anestetizzato per qualche momento l’enormità degli eventi che circondavano la vita sociale e civile di un Paese che stava per conoscere la pericolosa saldatura tra le forze cosiddette “costituzionali” (quindi quelle che si riconoscevano appieno nella democrazia borghese e liberale) e quegli estremi che Giolitti pensava di ridurre a più miti consigli mettendoli l’uno contro l’altro.
Fascisti e comunisti, già da allora, sono stati percepiti e visti dalla decrepita e incartapecorita classe dirigente liberale come due facce della medesima medaglia eversiva.
Pericolosi i primi per il portato rivoluzionario inerente l’amministrazione dello Stato, più ancora pericolosi i secondi per l’idea completamente capovolta di società che proponevano ad un “vecchio mondo” i cui chiaroscuri di gramsciana memoria erano sempre più evidenti e dove l’unica soluzione possibile alla crisi della politica era la risolutezza e la forza contro le masse che reclamavano diritti, lavoro, pane e pace.
L’ultimo capitoletto del libro è, da un lato, un predisporsi ad una nemesi storico-politica e, allo stesso tempo, una iniezione di anticorpi della memoria, della consapevolezza critica attraverso sia la Storia dell’Italia nel Novecento sia i suoi sviluppi nel nuovo millennio. Quella che Fornaro chiama «preferenza a dimenticare» è un condizione diffusa che, come nota giustamente l’autore, si accompagna a quel revisionismo storico (e politico) che oggi arriva a Palazzo Chigi. Ma non da oggi.
La domanda puntuale è dunque questa: può riaccadere tutto ciò? Non il fascismo col fez e la camicia nera e gli stivaloni. Non l’aspetto ormai folkloristico della dittatura mussoliniana. Stiamo parlando del crollo della democrazia, del suo collassare anche rapidamente per lasciare spazio a nuove forme di discriminazione politica, sociale, culturale, ideale, soprattutto economica.
Perché gli spazi che vengono aperti ai regimi autoritari sono dei viatici che si creano dentro i contesti di grandi crisi nazionali e internazionali. Possiamo ben dire che, proprio oggi, queste contingenze non mancano davvero e che tutto può far presagire una Europa dove aumenti la portata del nazionalismo, dove il presidenzialismo delle democrazie cambi fisionomia e dove, in Italia, si affermi a poco a poco una accettazione sempre maggiore delle illiberalità sostenute da una critica distruttiva e non arricchente il dibattito.
Le premesse – senza voler essere profeti in patria e nemmeno dei seminatori di sfortuna – ci sono un po’ tutte.
Ma vi sono anche delle differenze non da poco rispetto al quadro liberale che ha permesso al fascismo di diventare regime di Stato: c’è un’Europa che va riformata, perché se rimane solo quella della moneta e della finanza non fa che aiutare i nazionalismi ad emergere prepotentemente; c’è una Costituzione italiana che, nonostante tutti i tentativi di deformarla, è ancora lì ed è e rimane l’argine formale ad una decomposizione della democrazia.
Per poterlo essere anche sostanzialmente, la Costituzione va interpretata fattivamente ogni giorno da tutte e tutti noi, in qualunque ruolo ci si trovi. A cominciare dal mondo del lavoro che, proprio alla luce dei fatti storici, tanto nella sua espressione politica socialista e comunista, tanto in quella della rivendicazione sindacale, può essere assolto dall’accusa di aver, con le sue pretese sui diritti sociali, fomentato l’arrivo della dittatura mussolinana prima di quanto potesse accadere.
Il ritorno dell’autoritarismo novecentesco nelle forme e nei modi che storicamente conosciamo è impossibile. Ma il logorio della vita moderna può portare a quello della democrazia e a soluzione amministrative e di potere che finiscano col somigliare molto ai loro progenitori.
IL COLLASSO DI UNA DEMOCRAZIA
L’ASCESA AL POTERE DI MUSSOLINI (1919-1922)
FEDERICO FORNARO
BOLLATI BORINGHIERI
€ 15,00
MARCO SFERINI
26 ottobre 2022
foto: particolare della copertina del libro