È un giorno speciale per l’ospedale al Rantisi di Gaza. Dopo oltre un anno di lavori, viene inaugurato il reparto di oncologia pediatrica. Una struttura all’avanguardia finanziata con tre milioni di dollari raccolti dal Palestine Children’s Relief Fund (Pcrf), una ong palestinese che garantisce assistenza medica ad alta specializzazione ai bambini palestinesi e di altri paesi arabi e per la quale lavorano medici volontari di ogni parte del mondo, anche italiani. La conferenza stampa è appena terminata e la soddisfazione è dipinta sui volti di medici e dirigenti dell’ospedale. Ma è una gioia amara. Nelle stanze colorate e con disegni per l’infanzia sui muri sono ricoverati una dozzina di bambini colpiti da tumori infantili. Ognuno di loro stringe forte la mano della mamma in cerca di conforto. Per questi bimbi e le loro famiglie l’apertura di questo reparto, l’unico presente nella Striscia, è l’unica speranza di guarigione.
«Il dipartimento dispone di 16 letti per i bambini che necessitano il ricovero e di altri 13 per il day hospital – ci dice l’oncologa Zeena Salman – il nostro personale medico e paramedico è stato formato per assistere un centinaio di pazienti all’anno. Tanti purtroppo sono i bambini colpiti da tumore qui a Gaza, ai quali vanno aggiunti quelli che già sono seguiti da tempo». Un numero impressionante che il dottor Stefano Luisi, cardiochirurgo pediatra volontario a Gaza e presidente della sezione italiana del Pcrf, mette in relazione alle condizioni ambientali e alle conseguenze dei bombardamenti avvenuti durante le offensive israeliane contro la Striscia. «Un cocktail micidiale minaccia la salute di adulti e bambini a Gaza» ci dice «oltre due milioni di persone vivono in un territorio minuscolo, sotto embargo, con scarsità di acqua potabile, degradato e con precarie condizioni igenico-sanitarie». A ciò, prosegue Luisi, «si aggiungono metalli pericolosi rilasciati dai bombardamenti. Missili e proiettili di artiglieria sono fatti di materiali speciali che rimasti sul terreno nelle zone abitate possono provocare malattie gravi».
Per i bambini con il cancro il reparto di oncologia all’ospedale Rantisi ha risolto il problema dell’attraversamento del valico israeliano di Erez. Ora non sono più costretti ad andare nelle strutture ospedaliere della Cisgiordania. E, molto importante, possono avere i genitori accanto a loro. L’esercito israeliano se da un lato rilascia i permessi per il trasferimento in Cisgiordania o in Israele dei piccoli ammalati, dall’altro raramente non fa altrettanto con i genitori che, perché giovani, sono soggetti per «ragioni di sicurezza» a forti restrizioni e nella maggior parte dei casi non possono uscire dalla Striscia e andare in Cisgiordania con i figli. Così ad accompagnare i bambini sono le nonne. «Awad, mio figlio, ha sette anni ed è ammalato da oltre un anno» racconta Majda, 27 anni «mio marito ed io non siamo mai riusciti ad ottenere un permesso per seguirlo durante le terapie a Beit Jala. Vederlo andare via, nelle sue condizioni, senza di noi era straziante».
Le buone notizie che arrivano dall’ospedale Rantisi alleviano solo in piccola misura la difficile situazione della sanità a Gaza, vittima diretta, e con essa migliaia di civili ammalati, del blocco israeliano, della chiusura prolungata del valico di Rafah per decisione dell’Egitto e anche delle sanzioni imposte dal presidente palestinese Mahmoud Abbas – che, denunciano i medici gazawi, hanno allungato i tempi per la consegna di farmaci e attrezzature – impegnato in un duro confronto a distanza con il movimento islamico Hamas che ha il controllo della Striscia. A metà gennaio il ministero locale della salute ha lanciato l’allarme sulla precarietà di 13 ospedali e 53 poliambulatori di Gaza, a causa soprattutto della poca energia elettrica disponibile – appena qualche ora al giorno – che impone l’uso costante di generatori autonomi. E presto cesserà la donazione a Gaza di 15 milioni ogni mese per sei mesi offerta dal Qatar.
Già sotto gli standard per le prestazioni ordinarie, da circa un anno ospedali, medici e paramedici palestinesi devono fare i conti, ogni venerdì, con l’afflusso di decine, talvolta centinaia, di feriti dagli spari dei cecchini israeliani durante le manifestazioni lungo le linee di confine della “Grande Marcia del Ritorno” contro l’assedio. I risultati pubblicati nei giorni scorsi di un’indagine dell’Onu su queste uccisioni, oltre ad accusare Israele di essere responsabile di crimini di guerra e contro l’umanità, evidenzia come i proiettili sparati abbiamo provocato numerose amputazioni di arti e disabilità permanenti tra i manifestanti feriti. Per Israele quel rapporto è un cumulo di falsità che non tiene conto delle minacce palestinesi.
Sullo sfondo c’è sempre la possibilità di una quarta offensiva militare. La campagna elettorale israeliana, nettamente sbilanciata a destra sulla questione dei palestinesi sotto occupazione, potrebbe sfociare nella decisione del governo Netanyahu di rispondere con il massimo della forza all’attrito continuo che Hamas e altre formazioni tengono vivo lungo le linee orientali e settentrionali per spingere Israele a rimuovere il blocco della Striscia. Da alcune settimane “unità notturne” hanno preso il posto delle “unità degli aquiloni e dei palloni incendiari” con il compito di tenere impegnati i soldati israeliani con pneumatici dati alle fiamme, tentativi di superare le recinzioni e potenti altoparlanti che diffondono slogan e canti nazionali palestinesi. Vengono scagliati anche ordigni rudimentali che se da un lato provocano danni limitati dall’altro tengono le tensione alta. Israele reagisce con cannoneggiamenti e bombardamenti aerei. «Se noi non possiamo vivere da essere umani, anche gli israeliani non potranno farlo» era lo slogan scritto su un pallone incendiario lanciato dai palestinesi.
MICHELE GIORGIO
foto tratta da Pixabay