Le magnifiche sorti non progressive, e tutt’altro che progressiste, di quella “Cosa di centro“, di cui vaneggiavamo soltanto nemmeno ventiquattro ore fa, si sono infrante sul muro contro muro degli sragionamenti di Renzi e Calenda fatto di un florilegio malevolo di mezzi insulti e mezze considerazioni pseudo-politiche.
I due hanno replicato lo schema già visto nell’estate scorsa, quando il segretario di Azione promise di unirsi al centrosinistra per le politiche settembrine e, nel giro di pochi giorni, smentì, tutto, fece marcia indietro, ci ripensò per andare armi e bagagli con Italia Viva e far immaginare agli italiani che poteva esistere una specie di “terzo polo”.
Ce la siamo un po’ bevuta tutti questa storiella fatta di opportunità e di opportunismi e abbiamo pensato che un centro politico nell’Italia modernissima dell’epoca meloniana potesse venire fuori dall’unione di due partiti che, a ben vedere le elezioni regionali friulane, erano destinati ad una crisi di consensi sempre più marcata. La soluzione unitaria, in questi frangenti, sana solitamente una disperazione comune e non apre a scenari di proposte politiche innovative: ci si mette insieme per non scomparire del tutto.
Noi che facciamo parte della sinistra cosiddetta “radicale” o, per meglio dire, “di alternativa“, ne sappiamo qualcosa; anche se i nostri intenti sono ben altri rispetto a quelli di voler continuare a rappresentare un ceto di potere economico e tradurne la garanzia dei privilegi in seno al deperimento democratico della nostra Repubblica.
Lo scontro che ha generato la rottura tra Azione ed Italia Viva (ma per amore di verità sarebbe meglio dire tra Calenda e Renzi) è stato generato da una sommatoria di contraddizioni leaderistiche e di quella che, almeno un tempo, si sarebbe potuta definire l'”egemonia culturale” in un contesto di partito e, quindi, di riflesso nell’ambito più concreto ancora della politica parlamentare ed anche locale.
Se le scaramucce tra i liberisti del centro che fù ci parlano distintamente della miserevole condizione del dibattito e della dialettica tra le forze politiche di un Paese depredato dai ricchi e falcidiato dalle crisi economiche, dai tecnicismi bancari d’oltralpe, dalle guerre ad est e dal neoatlantismo ad ovest, non più confortante è la risposta che viene dal basso a tutto questo.
Lo scollamento esponenziale tra cittadinanza anche attiva e politica completamente asservita ad una commistione di poteri e di interessi privi di qualunque scrupolo, soprattutto quando si tratta di interessi ovviamente privati, non può che aumentare con figuracce di questo tipo. Ne sono consapevoli prima di chiunque altro proprio i colonnelli dei due leader che non hanno mancato di farlo sapere ai giornali ed al web.
Lo sconforto per una rottura tanto conclamata, diramanta via Twitter e in continua esacerbazione degli animi ha, alla fine, scoraggiato anche i più pacati sostenitori di un pragmatismo che, viste proprio le percentuali elettorali dei due partiti, avrebbe suggerito di addivenire ad un compromesso e di lasciarsi dietro alle spalle tutta la massiccia sequela di acredini che pure c’erano e che ribollivano nemmeno troppo carsicamente…
Astraendosi per un attimo da questa tragicomica (molto più tragica che comica…) scenetta delle beffe della politica italiana, è proprio alla questione democratica che va il primo pensiero. Una questione che rimanda ad una cultura civile e sociale che non può essere ignorata, considerata secondaria rispetto alle impellenze degli scadenziari del PNRR o dell’adeguamento delle leggi varate dal Parlamento con i relativi decreti attuativi.
L’Italia dell’aprile 2023 è un Paese ormai molto arretrato dal punto di vista culturale e, senza fare azzardati paragoni col passato, è molto difficile comunque poter assistere a dibattiti che scendano nel profondo delle questioni sociali, che ne disarticolino le problematiche e li mettano davanti anche agli elettori con un presupposto più che giustamente propagandistico. La dignità delle rispettive posizioni viene meno proprio nel momento in cui si utilizzano gli argomenti per prevalere e non per governare.
Se occorresse una conferma di questa interpretazione eticamente mefitica della politica istituzionale, traduzione assultamente pratica del volere popolare attraverso votazioni pilotate da leggi elettorali falsanti la equipollenza di ciascun voto, la avremmo anche dal comportamento squalificante del duo renziano-calendiano, che non garantisce nessuna “modernità” programmatica, nessun rinnovamento partitico; ma, in particolare, troveremmo conferma di tutto questo da decenni di consunzione del ruolo pubblico tanto dei partiti quanto delle istituzioni.
La “privatizzazione” della politica italiana non si è inverata in questi lustri soltanto in un piano di attuazione delle sole convenienze di partito. E’ stata una vera e propria mutazione genetica dell’identità pubblica delle istituzioni, della loro connaturazione costituzionale, riguardante l’interesse popolare, collettivo, veramente “nazionale“, costrette a diventare una succursale del liberismo continentale, attraverso un patto tra maggioritario e plebiscitarismo leaderistico.
Di volta in volta, in questi decenni, un presidenzialismo strisciante si è fatto strada nella politica dello Stivale e si è sovraesposto e sovraordinato alla forma parlamentare della Repubblica.
La politica dei programmi e delle idee, nonché quella tanto bistrattata delle ideologie, ha fatto largo all’individualità, all’egocentrismo esasperato, alla ricerca dell’uomo della salvezza da e di una politica corrotta e corruttrice che veniva fuori dalla mancata rivoluzione tangentopolizia.
Nessun movimento popolare ha traghettato l’Italia dalla “prima repubblica” alle altre che sono seguite. E’ stato piuttosto il berlusconismo rampantista ad introdurre il concetto dell’uomo politico al quale i partiti si sarebbero dovuti uniformare e non più viceversa. La vittoria del leader su tutti, nell’ipocrita o ossimorica “democrazia dell’alternanza“, è divenuta così il paradigma che consentito l’unione tra interessi privati, regole elettorali deformate a piacere, a seconda del partito che avrebbe dovuto vincere in base ai sondaggi.
Balletti di alleanze, trasformismi e cambi di casacca hanno indignato senza soluzione di continuità, ma anche da sinistra molto poco è stato fatto per aprire una nuova fase innovatrice della costituzionalità repubblicana che non fosse altro se non una rincorsa all’interesse di partito piuttosto che a quello comune, sociale e popolare.
Non serve oggi recriminare poi molto, perché il mutamento non lo si scorge nemmeno lontanamente all’ordine del giorno di una politica progressista di vera alternativa. Anche sul terreno delle riforme istituzionali. Ciò che davvero preoccupa è la saldatura di una serie di congiunture che potrebbero portare a scenare ben peggiori di quelli che possiamo immaginare.
Non si tratta di fare del catastrofismo, di essere allarmisti senza motivo. Tutt’altro. E’ bene prevenire degli scenari e non dimenticare mai che l’Italia è una penisola e non un’isola a sé stante, isolata dal resto del mondo. E quando anche fosse un’isola, comunque non potrebbe pensarsi come altro dal resto: dell’Unione Europea per prima e del contesto internazionale, ovviamente. I disastri politici che il governo Meloni sta producendo sono pari a quelli in politica economica ed estera.
Il contesto della guerra in Ucraina non aiuta certo a rasserenare gli animi di una politica che guarda al riarmo piuttosto che alla pace; che guarda alla pacificazione nazionale della memoria condivisa piuttosto che alla valorizzazione delle fondamenta resistenziali e antifasciste della Repubblica.
Una politica che guarda alla regionalizzazione egoistica dei beni comuni e delle strutture che devono assolvere alla tutela dei cittadini: questo non è federalismo, ma il primo tradimento dello stesso da parte di forze che sono passate dall’indipendentismo del nord e della “padania” (che non merita nemmeno la maiuscola, se politicamente intesa) al nazionalismo di nuova concezione salviniana.
Mentre la destra governa, la sinistra biascica poche parole, il centro si disperde nelle schermaglie di due partiti troppo pieni dell’ego dei loro rispettivi leader e il risultato è un campo aperto per la maggioranza nella gestione dei propri insani propositi di legge e di retrocessione sociale e morale dell’intero Paese.
Se siamo alle soglie della proposta semipresidenzialista delle destre, che sovvertirebbe il carattere parlamentare della Repubblica e l’equilibrio tra i poteri dello Stato, portandoci sulla soglia di una “monarchia repubblicana” alla francese, lo dobbiamo ad una indolenza pelosa, ad un interesse comunque sempre troppo privato nel pubblico, a quella fine delle ideologie che viene tanto proclamata come successo della modernità di un ceto politico che poi, se guardi attentamente, produce quei Calenda e quei Renzi che stanno insieme o divorziano più velocemente di Richard Burton e Liz Taylor.
MARCO SFERINI
14 aprile 2023
foto: screenshot ed elaborazione propria