Can che abbaia non morde. Questa è la sintesi di una direzione Pd aperta nel segno della sommossa annunciata, e chiusa con la vittoria di Renzi per abbandono della esangue minoranza. È la sola possibile lettura di Martina plenipotenziario precario e licenziabile ad nutum, e della confermata linea aventiniana. L’effetto collaterale – certo non inconsapevole – è che Mattarella è definitivamente con le spalle al muro.
Le coordinate costituzionali che il Quirinale deve osservare sono essenzialmente due. La prima: l’incarico va conferito a chi ha prospettive di avere la fiducia in parlamento. La seconda: il capo dello Stato non può a tal fine agire attivamente per costruire una maggioranza parlamentare a lui gradita. Può al più esercitare una moral suasion affinché le forze politiche si attivino, ed esercitare i suoi poteri per creare condizioni favorevoli a che lo facciano. Fin qui, Mattarella ha seguito i canoni con i due mandati paralleli a Casellati e Fico.
Ora, però, per i veti contrapposti si affaccia con forza l’ipotesi di un governo del presidente. La domanda è: tecnico o di tregua che dir si voglia, potrebbe avere la fiducia in parlamento? Va chiarito che per il voto di fiducia basta che i sì superino i no, pur rimanendo una minoranza rispetto ai componenti dell’assemblea. In tal caso il governo è nella pienezza dei poteri, pur non avendo una maggioranza stabile nei numeri parlamentari.
Se vincono i no, è obbligato alle dimissioni.
Dunque, è una questione di numeri. Fin qui, il Pd ha dichiarato la sua disponibilità a sostenere un governo del presidente. M5S e Lega hanno invece dichiarato la propria contrarietà, ed è comprensibile. In specie dopo il voto in Friuli, nessuno dei due soggetti politici ha interesse a farsi cuocere a fuoco lento nel sostegno di un governo comunque di altri. Se votassero entrambi contro la fiducia, la partita sarebbe chiusa senza tempi supplementari, dal momento che – sommati – hanno oltre 340 voti nella Camera e oltre 160 in Senato. Si sussurra che il Quirinale spererebbe nella non partecipazione al voto. Ma se anche la Lega fosse disponibile – e questo sembrerebbe escluso dalle ultime dichiarazioni di Salvini – sarebbe indispensabile aggiungere a quelli del Pd i voti favorevoli di Fi per superare – forse – il no di M5S. Saremmo al Renzusconi, e alla prova dell’inciucio. Saremmo alla vittoria dei perdenti nel voto del 4 marzo, e al tradimento della volontà espressa dal popolo sovrano. È del tutto improbabile che Salvini lasci questa arma nelle mani di M5S, e in ogni caso l’accusa verrebbe inchiodata sul Capo dello Stato. Una posizione difficilmente sostenibile. E un governo non già di tregua, ma di scontro permanente.
È improbabile che un governo tecnico ottenga la fiducia. E Mattarella, dopo aver rifiutato l’incarico a uno dei due soggetti vincenti (Lega e M5S) per la mancanza di numeri certi in parlamento, si troverebbe a mandare alle camere un governo quasi certamente privo di quegli stessi numeri, e per di più sostenuto dai perdenti (Pd e Fi). Questo per fare una legge di stabilità volta – ulteriore motivo di polemica contro il Capo dello Stato – a compiacere i partner europei.
Si può mai aggiungere a tutto questo il carico di una modifica della legge elettorale? È forte la pressione per un sistema che dia una maggioranza certa, attraverso un ballottaggio e/o l’attribuzione di un premio. Ci si inchioda a un bipolarismo forzoso che non è più aderente alla realtà politica del paese. Chi coltiva sogni macroniani dovrebbe poi considerare che Macron ha concluso vittoriosamente la sua marcia sul parlamento, ma è pur sempre minoranza in un paese che ora marcia contro di lui. E rimangono gravi i dubbi sulla costituzionalità di innestare un premio o un ballottaggio sul Rosatellum.
Mattarella ha il potere di mandare in parlamento per la fiducia un governo di tecnici. Ma non potrebbe mantenerlo artificialmente in vita a lungo, se sfiduciato. Il ritorno alle urne sarebbe comunque inevitabile. E non è utile il precedente di Monti, una fase del tutto diversa, e altri gli attori.
Una crisi di bassa qualità, con un eccesso di smanie, di insulti, di personalismi. Il punto è che fare un governo – e persino un governicchio – è un’arte, e non un mestiere.
MASSIMO VILLONE
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