Il capitalismo in movimento nel nuovo (dis)ordine multipolare

Tra le prime questioni internazionali del nuovo anno vi è, senza ombra alcuna di dubbio, un insieme di relazioni altrettanto tali su cui poggia la contesa multipolare moderna che,...

Tra le prime questioni internazionali del nuovo anno vi è, senza ombra alcuna di dubbio, un insieme di relazioni altrettanto tali su cui poggia la contesa multipolare moderna che, a sua volta, è, in quanto struttura sistemica, il punto di partenza delle politiche dei singoli Stati così come degli ammassi più o meno aggregati degli stessi (l’Unione Europea, fra tutti, come esempio eclatantemente negativo).

Queste relazioni internazionali, che un tempo erano direttamente confronti e scontri tra interessi piuttosto regionali o anche strettamente molto locali, oggi sono divenute una pagina nuova nella storia del modernissimo capitalismo liberista che, tuttavia, nonostante le potenzialità che dimostra sul terreno tecnologico, sulle capacità interattive e sulle dinamiche immediate che riesce a mettere in essere (anche sul fronte degli scambi borsistico-finanziari), non può fare a meno di registrare i tempi differenti della Natura.

Le ripercussioni dell’ecosistema si fanno avanti dopo che si sono venute a creare le condizioni per un mutamento tanto graduale quanto repentino degli effetti provocati dall’ipersfruttamento del suolo, dei mari, dell’atmosfera e di ogni altro ambito esistenziale nostro e di tutti gli altri esseri viventi. Per questo non esiste una coincidenza immediata tra longa manus capitalistico-finanziaria ed effetto prodotto dalla Natura in conseguenza delle forzature che le vengono fatte.

In un certo senso, da un po’ di decenni a questa parte, oltre ai movimenti sociali che dovrebbero contrastare il mercato e il liberismo, aprendo una serie di contraddizioni utili, se non oltre, a rallentarne la folle corsa anti-ambientale, incivile, immorale e neopauperistica per la maggior parte della popolazione mondiale, si può parlare di una questione inerente il “movimento geografico del capitale“.

Per movimento si intende propriamente ciò: lo spostamento del capitale sul globo e, quindi, la dislocazione dei fondi stessi, la concentrazione dei medesimi, il loro impiego in nuovissimi centri produttivi. David Harvey si è chiesto in quale modo il capitale riesca a “viaggiare” più velocemente nel mondo e la risposta che si è dato è, escludendo le merci e gli apparati produttivi, indubbiamente il denaro. In discussione in queste settimane vi è il rapporto tra le nuovissimi tecnologie e la loro presenza sul mercato.

Parlare di Elon Musk vuol dire, in sostanza, trattare tanto la questione dell’interazione tra grandi industrie della comunicazione e politica, tra questa e la montagna di cumulazione capitalistica rappresentata dall’impero del magnate di Starlink e Tesla, così come delle complesse ripercussioni geopolitiche che il tutto inevitabilmente rappresenta non solo sui prossimi sviluppi della presidenza Trump negli Stati Uniti d’America, ma sull’intero pianeta Terra.

La movimentazione geografica del capitale disegna oggi una mappa che è certamente multipolare, in cui quindi si possono rintracciare differenti centri di accumulazione, di gestione di cartelli di aziende internazionali che si propagano negli altri continenti e si fanno una spietata concorrenza, in particolare sul piano delle telecomunicazioni; ma più ancora ci dice che, oltre l’apparenza (e in parte la sostanza) della nuova era capitalistico-finanziaria di grande successo, le gambe del gigante rimangono d’argilla.

La discesa in campo diretta, mostrata e dimostrata al mondo incessantemente, dell’uomo più ricco al mondo, somiglia – fatte tutte le debite eccezioni – a quella di Berlusconi nel lontano 1994 in Italia. Il rischio di impresa veniva associato ad una politica incapace di rendere effettivamente concreto quel ruolo di tramite che ha sempre avuto, naturalmente sovrastrutturale (per dirla con Marx), e che ha rischiato di cedere troppo al compromesso con le classi sociali più deboli.

Sono gli esperimenti di governo di centrosinistra che, aprendo all’ipotesi di gestione di un interesse nazionale, hanno commistionato difesa del privilegio privato e beni comuni, sottraendo in parte alle rappresentanze conservatrici la loro funzione primigenia, surrogandola e dando seguito ad una serie di contraddizioni ciclicamente evidenti nella proposta tanto politica quanto gestionale dei paesi che li hanno sperimentati.

Gli Elon Musk e Mark Zuckerberg di turno hanno, al pari dei loro contendenti asiatici, compreso l’impossibilità per gli interessi privati di correre in parallelo con quelli pubblici, rendendo evidente ciò che, del resto, già si sapeva: ossia che il fine ultimo del capitalismo è l’accumulazione dei profitti e la loro destinazione in paradisi fiscali o in investimenti speculativi che sono tra le prime ragioni delle crisi verticali di economie di intere nazioni.

Ma, se facciamo un bilancio pluritrentennale, arrivando alle soglie degli anni Ottanta del secolo scorso, ci accorgiamo che il centrosinistra, come modello di amministrazione politica degli interessi dell’impresa e della grandissima impresa, è entrato in contrasto con sé stesso là dove non ha potuto rendere accettabile un disequilibrio già di per sé intollerabile: assicurare ai profitti privati una tutela più che soddisfacente e garantire egualmente una ripresa della domanda data da una implementazione dei salari.

I dati OCSE lo dicono da molto tempo: i salari in Italia sono al palo da anni e anni, al di sotto di quelli delle più forti nazioni europee (Francia e Germania) e persino al di sotto della media delle retribuzioni dell’intera Unione. La crisi del capitalismo moderno si affaccia quindi nella nuova fase della globalizzazione multipolare proprio nel momento in cui gli imprenditori devono rischiare in primissima persona e, addirittura, mettersi alla guida delle nazioni.

Le concrete difficoltà di espansione del capitale oggi sono date – come ricorda Giovanni Arrighi – da una convergenza di due fattori: i reali impedimenti ad una diffusione nella forma della produzione e una lentezza della circolazione delle merci. Intendiamoci: qui non si tratta di considerare il moto di queste ultime in senso espressamente logistico. Non stiamo parlando di maggiore o minore velocità delle navi container, degli aerei o delle ferrovie nella dislocazione delle merci.

Ci stiamo riferendo ad un legame diretto tra affanno produttivo e nuove conquiste di “zone” di mercato, settori dove la crisi ambientale possa essere sfruttata come opportunità per una porzione di mondo a discapito della maggioranza del resto del pianeta. Allevi sintetizza benissimo questa tipica criticità della moderna economia liberista e, addirittura, ripercorre la storia dell’origine del capitale anche a partire da una periodicità di queste impasse tra mercato e Stato, tra classi dirigenti politiche e classi finanziarie.

Nel momento in cui la produzione trova degli ostacoli nella sua concretizzazione locale e internazionale (partendo ovviamente dai centri in cui si è sviluppata originariamente), quasi paradossalmente si crea il presupposto per una conversione finanziaria delle economie che appaiono in crisi. L’esempio delle repubbliche marinare di Venezia e Genova è a dir poco illuminante: nonostante la loro vocazione commerciale, la loro impostazione talassocratica, questi due potenti Stati antichi finirono col divenire, inevitabilmente, dei centri finanziari.

Oggi, come ieri, la finanziarizzazione dell’economia nazionale dipende da fattori che si rivelano non estranei, ma certamente altri rispetto agli interessi prettamente pubblici e sociali. Ogni trasformazione finanziaria dell’impianto strutturale di un paese è, di per sé, la vittoria – seppure momentanea (ma parliamo di tempistiche molto lunghe…) – del capitale sul lavoro, delle borse sul credito spicciolo.

Potremmo fare l’esempio dei Paesi Bassi, dell’Inghilterra, di molte altre nazioni che, nel corso dei secoli, conobbero queste mutazioni tra capitale mercantile e capitale finanziario: non avremmo altro se non la conferma che esiste anche qui una legge dello sviluppo ineguale che è particolarmente resiliente nel corso dei secoli e che, quindi, anche oggi riesce ad adattarsi alla grave crisi globale in atto.

Se, partendo dai fatti statunitensi odierni, provassimo a capire come sono riusciti gli USA a divenire, dopo la Seconda guerra mondiale, il centro economico-finanziario mondiale, ci troveremmo innanzi allo studio dei flussi tanto dell’alta finanza quanto a quelli delle merci più propriamente dette. Il travaso più rilevante avvenne, dopo il 1945, da Londra a Washington, dove la produzione bellica aveva massificato il lavoro in tal senso e aveva trascinato con sé molti altri comparti industriali.

La flessione statunitense nella fase attuale del multipolarismo è determinata proprio da una moltiplicazione dei fattori che sono alla base della globalizzazione della finanziarizzazione capitalistica: non esiste più una nazione soltanto ad avere le caratteristiche contingenti che permettono la mutazione da economia produttiva ad economia finanziarizzata. Quelle potenzialità un tempo soltanto statunitensi sono ormai proprie della Cina come del Giappone, dell’India, della Russia e, sempre considerate le differenze oggettive in termini di competitività, del Sudafrica o di alcuni paesi arabi.

Elon Musk, che viene presentato (e che ovviamente si presenta) come il genio mondiale del nuovo millennio, qualità inscindibile naturalmente dal successo economico indiscusso, è la prova di una politica americana arrivata ai minimi termini, incapace di gestire la fase attuale, costretta a ricorrere ai magnati (Trump, manco a dirlo) per ridarsi un imbellettamento per ora di facciata e magari mostrare i muscoli immediatamente dopo.

Le minacce di uscita dalla NATO o da organizzazioni internazionali affidate all’ONU, non sono soltanto mosse politico-strategiche, per avvicinarsi a quella metà del mondo che altrimenti entrerebbe in apertissimo conflitto con la debolezza americana, ma sono anche operazioni di cautela economica: visto quanto versano gli USA all’Alleanza atlantica (parliamo di 730 miliardi di dollari all’anno) e quanto spendono in produzione bellica (e in finanziamenti a Kiev e Tel Aviv per una guerra mondiale a pezzi).

Se ne trae la lezione che il capitale si sviluppa di continuo e, sviluppandosi, si muove, si sposta perché si espande o, a volte, fa delle ritirate strategiche per colpire là dove trova nuovi corridoi di sfruttamento tanto di forza lavoro quanto di materie prime. Le guerre di fine Novecento nel Golfo persico, nei paesi africani e nei Balcani ne sono stati una dimostrazione più che lampante.

David Harvey definisce ciò un “aggiustamento spaziale” del capitale e Marx ne descrive meticolosamente i movimenti: là dove certi paesi hanno urgenza di soldi, le nazioni benestanti (o i gruppi economici che le dirigono (in)direttamente) sono pronti a prestare le loro eccedenze. A loro volta, i primi dipenderanno dai secondi nel momento in cui la domanda interna crescerà e diventerà capitalisticamente “naturale” dipendere dai propri creditori.

Non vi sembra un po’ la storia che corre sui titoli dei giornali oggi in merito al governo italiano che starebbe trattando un contratto con la Starlink di Musk per affidarle le telecomunicazioni criptate, i servizi connessi con gli affari di Stato interni ed esteri? Le cifre sono da capogiro: miliardi e miliardi di euro che il magnate di Tesla avrebbe garantiti per uno o più lustri.

Contano ovviamente anche i rapporti di stretta fede politica tra Meloni, Musk e Trump: nel viaggio in Florida pare che la Presidente del Consiglio ne abbia discusso proprio con il quasi nuovo Presidente iperconservatore e iperliberista. Ma più di tutto conta l’asse che si stabilisce nella nuova dipendenza italiana dal fiaccato gigante americano. Nel pacchetto del “Make America Great Again” c’è, dunque, la nuova svendita della sovranità del Bel Paese a quella dello Zio Sam.

Ma, non c’è ragione di dubitarne: i patrioti del nuovo millennio sono questi…

MARCO SFERINI

7 gennaio 2025

foto: screenshot ed elaborazione propria

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